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Diritto di critica | March 29, 2024

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Bombe e persecuzioni, la vita dei cristiani in Iraq. Intervista al vescovo di Baghdad - Diritto di critica

Bombe e persecuzioni, la vita dei cristiani in Iraq. Intervista al vescovo di Baghdad

L’attacco alla chiesa siro-cattolica di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso del 31 ottobre scorso a Baghdad ha riportato alla luce le persecuzioni silenziose di cui spesso sono vittime i cristiani nelle aree del Medioriente e dell’Africa. È di pochi giorni fa, infatti, la notizia di scontri e morti per motivi religiosi in Nigeria, dove hanno perso la vita almeno 35 persone: si tratta solo l’ennesimo episodio di una lunga lista, spesso ignorata. A questo proposito più di una volta negli ultimi anni Mons. Shlemon Warduni, iracheno di denominazione caldea e vescovo ausiliare di Baghdad, ha parlato all’Europa per evidenziare la situazione tragica in cui i cristiani versano in queste aree del mondo. Intervistato da Diritto di Critica, ha raccontato la sua esperienza e la difficile condizione sociale e religiosa dell’Iraq.

Mons. Shlemon Warduni, parlando al Parlamento italiano, europeo e tedesco ha sottolineato come sotto Saddam la vita per gli iracheni fosse in qualche modo più sicura rispetto ad oggi. Che cosa intende? Come si vive quotidianamente oggi in Iraq?

Sono due situazioni totalmente diverse, impossibili da mettere a confronto. Con Saddam Hussein si parla di dittatura: non c’erano libertà di stampa o di espressione e chiunque si poneva contro il potere veniva imprigionato o ucciso. C’era molta povertà, spesso si soffriva la fame, eppure c’era più sicurezza rispetto ad oggi. Girare di notte, ad esempio, non era pericoloso. Oggi invece in Iraq c’è l’insicurezza più totale: nessuno al mattino può garantire di tornare a casa la sera. È il caos. Io stesso più di una volta sono scampato per puro caso ad alcuni attacchi con autobombe perché – anche se spesso non se ne parla – ce ne sono quasi quotidianamente.

Eppure si dice che in Iraq siano state portate la democrazia e la libertà.

Che libertà? Che democrazia? Chi dice che ora l’Iraq è libero e democratico dovrebbe provare a camminare per le strade di Baghdad: autobomba, attacchi kamikaze e morti sono all’ordine del giorno. La libertà non può essere semplicemente ‘consegnata’: deve anche essere educata. Se all’improvviso si squarcia una diga senza pensare a come incanalare l’acqua, l’acqua distruggerà tutto ciò che trova sul suo percorso. Lo stesso accade quando i paesi che hanno vissuto per anni sotto dittatura vengono ‘resi liberi’ senza che ci sia però un governo forte che sappia controllarli. La libertà diventa in questo modo caos e a farne le spese è la gente comune: i bambini hanno paura ad andare a scuola, gli studenti universitari non frequentano le lezioni e non si presentano agli esami per paura di attentati, i fedeli non vanno volentieri alle celebrazioni e via dicendo.

Rispetto all’epoca di Saddam, come è cambiata la situazione dei cristiani in Iraq?

Sembra paradossale ma sotto Saddam Hussein i cristiani erano più rispettati di adesso. Anche loro vivevano le stesse difficoltà degli altri – povertà, fame, mancanza di libertà – ma erano più sicuri. Adesso invece le minoranze (non solo cristiane) sono diventate il capro espiatorio su cui si riversa il fanatismo islamico: fanatismo generato dalla situazione di instabilità e dai numerosi problemi economici e politici e dagli interessi internazionali che si intrecciano in questa terra.

Non sono perseguitati solo i cristiani?

No, gli attacchi e le persecuzioni toccano anche altre minoranze come ad esempio i Mandeisti che riconoscono come profeta Giovanni il Battista e si definiscono ‘cugini’ dei cristiani, oppure gli Yazidi. Ma si tratta di persecuzioni di minore entità, molto meno marcate rispetto a quelle che colpiscono i cristiani in modo del tutto arbitrario.

Cosa significa quindi oggi essere cristiani in Iraq?

Significa aver paura ad andare in chiesa, ad esempio. Dopo l’attacco alla cattedrale siro-cattolica del 31 ottobre scorso, dove morirono oltre 50 persone, i cristiani seguono sempre meno le funzioni perché temono gli attentati: non si sentono più sicuri neanche in chiesa. Significa vivere con il timore di minacce dai vicini di casa o attacchi addirittura in casa propria: pochi giorni fa a Baghdad alcuni fanatici hanno seppellito una bomba davanti alla porta dell’abitazione di due anziani coniugi cristiani. Hanno poi suonato il campanello e quando i due sono usciti per vedere chi fosse, la bomba è esplosa. Questo solo perché erano cristiani. Oltre agli attacchi, essere cristiano significa non trovare lavoro: in Iraq la fede è diventata una discriminante nella vita quotidiana.

In Iraq è obbligatorio indicare sulla carta d’identità la propria fede religiosa. Questo cosa comporta?

Comporta il venir meno di un pilastro fondamentale, cioè l’idea che prima di essere cristiani, musulmani, ebrei, mandeisti o altro siamo tutti cittadini iracheni. Segnare la religione sulla carta d’identità aumenta le discriminazioni e le divisioni e fa allontanare la pace sempre di più. Solo quando si riconoscerà che prima di tutto siamo cittadini iracheni sarà più facile pensare alla democrazia e alla convivenza.

Era stato proposto di creare un’area in Iraq dove concentrare tutta la popolazione cristiana. Cosa ne pensa?

Era stata identificata l’area nei pressi di Ninive – area a più alta concentrazione cattolica in Iraq – come possibile ‘zona cristiana’, ma una soluzione simile creerebbe soltanto isolamento e divisione. Diventerebbe un’area-ghetto per i cristiani e questo di sicuro non faciliterebbe i rapporti.

La recente ondata di violenza nei confronti dei cristiani è nuova o ci sono stati dei precedenti?

Non è nuova, ciclicamente ci sono sempre state ondate di violenza verso le minoranze, fin da quando in Mesopotamia hanno iniziato a convivere diversi credi. Ciò che inquieta però è che mai prima d’ora avevano assunto queste proporzioni.

La convivenza tra cristiani e musulmani in Iraq è dunque così impossibile?

Assolutamente no: la gente comune ha sempre vissuto fianco a fianco, cooperando e collaborando. I musulmani sono per la maggior parte moderati, non capiscono né condividono gli attentati e soprattutto sono molto vicini alla comunità cristiana locale: partecipano ai funerali, ricordano le vittime cristiane nelle loro funzioni, sono spaventati dalla violenza. Il dialogo e la convivenza ci sono e sono possibili anche in futuro. Purtroppo però il fanatismo non ha solo radici religiose ma sociali, economiche e politiche.

L’emigrazione dei cristiani è aumentata negli ultimi anni? Quanti si sono spostati altrove?

L’emigrazione è aumentata: non ci sono dati ufficiali e certi  ma si stima che circa un terzo dei cristiani abbia lasciato il paese negli ultimi anni, in un esodo che alla lunga porterà il Medioriente – storica culla del cristianesimo – ad essere svuotato della sua popolazione cristiana. All’inizio noi religiosi cercavamo di convincere la gente a non emigrare ma più passa il tempo più le persone hanno bisogno di garanzie di sopravvivenza: garanzie che qui non ci sono più. Molti sono andati nei Paesi limitrofi, molti in Europa dove spesso si sono visti negare il visto o il permesso di soggiorno.

Che ruolo ha avuto l’Europa di fronte a questi episodi discriminatori?

L’Europa fino all’attacco alla cattedrale ha sempre taciuto, si è disinteressata. Più volte dall’Iraq abbiamo lanciato appelli di aiuto che sono rimasti inascoltati fino al 31 ottobre scorso. Dopo l’attacco alla cattedrale però l’Europa si è ricordata di noi e da diversi Paesi sono arrivati incitamenti a trasferire i cristiani iracheni in Occidente per proteggerli così dalle persecuzioni. Questa non è una soluzione. Innanzitutto disposizioni di questo tipo non fanno che aumentare il fondamentalismo e l’odio tra Oriente ed Occidente. Inoltre  creano soltanto altri problemi anche in Europa, dove gli iracheni faticherebbero a trovare il lavoro e sarebbero in tempi brevi costretti a tornare in patria. Patria dove però non avrebbero più nulla.

E quindi?

L’Europa avrebbe il potere di promuovere la pace. Solo così si potrebbe risolvere il problema alla radice. La pace si potrebbe ottenere facendo pressioni sui paesi arabi con cui l’Europa è in contatto perché combattano il terrorismo: la maggior parte dei terroristi non sono iracheni ma stranieri, addestrati in paesi partner dell’Europa. La  pace si potrebbe ottenere anche smettendo di fabbricare armi e di venderle a questi Paesi o ai terroristi.

Ha usato il condizionale.

Sì, perché finché anche l’Europa ha interessi in Iraq la pace non ci sarà mai. Ci saranno solo tentativi di tamponamento e di conseguenza sarà sempre più difficile contrastare le persecuzioni e garantire davvero la sicurezza al popolo iracheno, cristiano o musulmano che sia.