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Diritto di critica | March 29, 2024

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L'Egitto che contagia il mondo arabo - Diritto di critica

L’Egitto che contagia il mondo arabo

La Tunisia è stata la miccia, l’Egitto l’esplosione. Il mondo arabo, dopo che il 25 gennaio migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade al Cairo e nelle principali città egiziane per rivendicare il loro diritto alla libertà e ad un futuro migliore, è in fermento: si guarda all’Egitto come ad un modello, un esempio da seguire per riprendersi la dignità di cittadini troppo spesso negata dai sultani contemporanei.

In Egitto una soluzione che permetta di bloccare gli scontri pare ancora lontana: ad oggi si contano all’incirca 300 morti nel Paese dall’inizio delle manifestazioni (297 quelli accertati secondo Human Rights Watch, ma potrebbero essere di più) e alcune centinaia di persone arrestate, tra cui 35 giornalisti e attivisti internazionali e locali per i diritti umani. Continuano anche i presidi in piazza Tahrir e nelle strade e le immagini dei reparti antisommossa che sparano a un civile inerme fanno il giro del mondo, diventando un simbolo del clima di tensione che da quindici giorni si respira in Egitto, nonostante i primi timidi segni di ritorno alla normalità. Alcune banche, infatti, hanno riaperto, si sta ristabilendo la circolazione e Al Arabya ha annunciato la scarcerazione di Wael Ghonim, blogger simbolo della rivolta di cui si erano perse le tracce dal 28 gennaio scorso: « non sono un eroe – ha dichiarato ai manifestanti in piazza Tahrir – voi siete eroi, voi che siete rimasti qui sul posto: dovete insistere perché le nostre rivendicazioni siano accolte, dobbiamo insistere in memoria dei nostri martiri».

Gli oppositori al regime di Mubarak hanno infatti già annunciato l’intenzione a continuare le proteste, respingendo le offerte del vicepresidente Omar Suleiman perché ritenute inadeguate e insufficienti rispetto alle loro richieste. Il 6 febbraio, infatti, Suleiman ha incontrato una delegazione di rappresentanza delle forze di opposizione ma ha negato la possibilità che il presidente Hosni Mubarak possa dimettersi prima della fine del mandato, proponendo di contro una trattativa per la liberazione dei prigionieri politici e l’alleggerimento delle leggi d’emergenza e della censura. A seguito di un incontro anche con lo stesso Mubarak, Suleiman ha inoltre annunciato l’istituzione di una commissione per emendare la costituzione, in particolar modo riguardo al numero di candidature ammesse alle elezioni presidenziali del prossimo settembre così da garantire una transizione pacifica dei poteri, oltre che di una commissione indipendente per indagare sugli scontri dello scorso mercoledì tra i gruppi pro-Mubarak e i manifestanti in Piazza Tahrir.

Ma la gente non vuole una ‘rivoluzione a metà’ e il ‘no’ alle proposte giunto dai Fratelli Musulmani e dai manifestanti – che tuttavia non riconoscono nei Fratelli Musulmani i leader unici del movimento – ha fatto rialzare la tensione: ora si chiede una ‘escalation della protesta’, con assedi ai palazzi del potere e alle televisioni e marce verso le residenze presidenziali, anche se ciò dovesse significare scontri con l’esercito.  La gente raccolta infatti nella piazza accusa il governo di voler prendere tempo e giura di non avere intenzione di mollare.

E mentre in Tunisia la ‘Rivolta del Gelsomino’ ha già spinto alla fuga il presidente Ben Ali, in carica da oltre trent’anni, e in Egitto si continua a chiedere la cacciata immediata di Mubarak, gli altri paesi del Nord Africa e del Medio Oriente alzano la testa. Internet e i social network come Facebook sono i metodi più utilizzati per chiamare alla rivolta, mentre  il giorno preferito per portare in piazza il proprio dissenso è spesso il venerdì, giorno della preghiera per il mondo arabo. E più si moltiplicano le voci di protesta, rimbalzando sul web e nelle strade, più i governi dal Marocco alla Giordania  tremano.

In Yemen già da giorni centinaia di migliaia di persone chiedono le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh: manifestazioni sfociate il 3 febbraio nella ‘giornata della collera’, quando oltre ventimila persone hanno riempito le strade della capitale Sana’a, non soddisfatte dalle ultime concessioni del presidente (aumento dei salari, promessa di non ricandidarsi nel 2013 e di non cedere la poltrona a suo figlio). Allo stesso modo prosegue la rivolta in Sudan, dove decine di attivisti ed oppositori – si parla di più di 70 persone – sono stati arrestati alla vigilia delle proteste indette il 30 gennaio a Khartoum per l’aumento dei prezzi nel Paese. In Marocco per tentare di prevenire il ‘contagio’ le autorità hanno promesso risposte immediate alle rivendicazioni economiche e politiche della popolazione, seguendo così la linea della Libia che per scongiurare le rivolte contro il caro alloggi ha stanziato un fondo di 24 miliardi di dollari per investimenti nel settore dell’edilizia sociale. In Algeria il presidente Abdelaziz Bouteflika ha annunciato la revoca dello stato d’emergenza (in vigore dal 1992) e imminenti misure per ridurre la disoccupazione nel Paese: le opposizioni tuttavia hanno indetto altre manifestazioni di piazza per il 12 febbraio. Le proteste raggiungono intanto anche la Siria, dove da venerdì 4 febbraio si lanciano su Facebook appelli a manifestare contro ‘la monocrazia, la corruzione e la tirannia’, mentre in Giordania i leader tribali pretendono dal governo di re Abdallah la messa in campo di riforme immediate: in caso contrario promettono la rivolta così come è successo sulle coste del Nord Africa.

I 36 leader beduini giordani in una lettera presentata al governo di Amman rivendicano la necessità di cambiamenti in campo sociale e di una concreta lotta alla corruzione. Non risparmiano nemmeno critiche al tenore di vita eccessivamente dispendioso della regina Rania. Il venir meno del supporto dei leader tribali al governo provocherebbe il dilagare del malcontento anche dei gruppi di opposizione e di alcuni esponenti islamici, che già manifestano per ottenere una maggiore rappresentanza politica e migliori opportunità lavorative. Tuttavia non sono ancora state avanzate richieste di dimissioni per il sovrano, come invece sta accadendo in altri paesi.

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