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Diritto di critica | March 28, 2024

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L'Egitto sotto tortura nei racconti del Guardian - Diritto di critica

Avevano una baionetta e hanno minacciato di violentarmi con quella. Poi l’hanno agitata tra le mie gambe. Dicevano che sarei potuto morire là o sparire in quella prigione senza che nessuno lo venisse mai a sapere. La tortura è stata dolorosa ma il pensiero di scomparire in un carcere militare, quello è stato davvero spaventoso”. Ashraf ha 23 anni. Venerdì scorso si trovava nei pressi di Tahrir Square al Cairo. Stringeva in mano una scatola con materiale sanitario destinato ad una delle cliniche di fortuna allestite per soccorrere il popolo anti-Mubarak. L’hanno fermato nella piazza simbolo della protesta: pestato, condotto in prigione e torturato. Ashraf racconta l’altra faccia dell’esercito egiziano.

“Ero in strada, un soldato mi ha fermato e mi ha chiesto dove stavo andando. Gli ho risposto, ma lui ha iniziato ad accusarmi di lavorare per i nemici stranieri. Sono arrivati altri soldati e hanno preso a colpirmi con le loro armi”. Subito dopo il carcere, nella parte posteriore del Museo delle Antichità del Cairo, un’area sotto il controllo militare. “E’ arrivato un ufficiale e mi ha chiesto chi mi pagava per combattere contro il governo. Quando gli ho risposto che volevo solo un governo migliore, mi ha colpito alla testa facendomi cadere a terra. Poi un gruppo di soldati ha iniziato a prendermi a calci”.

Quella di Ashraf è una delle testimonianze raccolte dal quotidiano britannico The Guardian. Dopo le uccisioni degli scorsi giorni, attivisti ex detenuti denunciano i maltrattamenti subiti nella capitale egiziana. Una vera e propria campagna intimidatoria, messa in piedi per colpire manifestanti e oppositori politici. Immediata e secca la smentita dei vertici dell’esercito egiziano: “Le forze armate negano qualsiasi abuso ai danni di manifestanti. Le forze armate sono guidate dal principio che bisogna difendere i manifestanti pacifici. Non hanno mai, né mai lo faranno, sparato ai manifestanti“.

Eppure le accuse si rincorrono forti e insistenti. Secondo organizzazioni egiziane a difesa dei diritti umani, come la Human Rights Watch, sarebbero almeno 119 le persone detenute arbitrariamente, alcune delle quali, stando alle testimonianze, sarebbero state sottoposte a tortura, arrivando addirittura all’uso di elettroshock, pratica da sempre esclusiva dei servizi segreti. Senza contare poi le innumerevoli e inspiegabili sparizioni di prigionieri.

Da una parte i manifestanti, quelli che chiedono la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la crescita del paese. Quelli che girano per la città distribuendo volantini, esibendo manifesti, gridando che un Egitto diverso è possibile e doveroso. Dall’altra i soldati, apparentemente neutrali, a tratti simpatizzanti con la folla. Difendono il paese. Mubarak era uno di loro, rispettato più per il suo essere filo-americano che non per il suo essere presidente. Le due parti si incontrano nelle piazze, per le strade, in quelle prigioni militari dove è la divisa a schiacciare gli ideali. Senza che nessuno venga mai a saperlo. Non succede a tutti. Ad alcuni sì.

L’Egitto si macchia così dello scempio della tortura. Amnesty International chiede l’immediata fine dello stato d’emergenza e degli arresti arbitrari, una condanna pubblica alla tortura e provvedimenti volti a sradicarla; oltre ad una pena esemplare per i responsabili e il risarcimento delle vittime. “Chi è al potere al Cairo deve considerare l’attivismo delle strade non come una minaccia ma come un’opportunità per consegnare alla storia i sistematici abusi del passato. La transizione politica deve coinvolgere la gente e rafforzare il rispetto per i diritti umani” ha affermato Claudio Cordone di Amnesty Italia. Ma mentre si fa lontana l’ipotesi delle dimissioni presidenziali, l’obiettivo primario dei vertici governativi resta esclusivamente quello di riportare il paese all’ordine e alla normalità.

Ashraf camminava per la strada quel venerdì, cercando solo un governo migliore. Ha trovato i calci, le percosse e quella paura di una morte silenziosa e inesistente che non dimenticherà mai. È la fotografia di un paese che cercava la democrazia e ha trovato l’arrogante violenza dei suoi capi. Incapace di salvarsi dalla tortura dei suoi figli, dalla tortura di se stesso.