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Diritto di critica | March 28, 2024

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Come smettere di scrivere poesia?

Come smettere di scrivere poesia?

di Giorgio Biferali

Viviamo un’epoca senza memoria, senza riferimenti etici e culturali, in cui il tempo assume le sembianze di un esilio, un punto di non ritorno, e, della celebre poetica manzoniana, è rimasto solo “l’utile per iscopo”. Francesco Muzzioli, che ricorda bene “il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”, scrive questo breve libro (poco più di cento pagine), versione moderna ed estesa della Perdita d’aureola baudelairiana, in cui veste, mantenendo il suo carattere di critico-scrittore, i panni di un medico con l’intento di curare, attraverso l’uso della poesia (presente in numerose citazioni e direi, soprattutto, nel titolo), un “pubblico” incosciente e illuso, convinto che basti scrivere “io” e soffrire un po’ per essere annoverato nell’universo astratto dei poetanti.

Muzzioli, quindi, come Lucrezio nel De Rerum Natura, per rendere più fruibili ed efficaci le sue parole, cosparge “l’orlo della tazza di biondo e dolce miele”, la copertina minimal, la brevità del libro e, come accennavo, l’uso della poesia. La terapia viene suddivisa dall’autore, nonché professore di critica letteraria all’università La Sapienza, in tre periodi necessari: 1) Diagnosi e terapie della “tabe poetica”; 2) I consigli dei nonni, una piccola antologia; 3) Esercizi di recupero, ovvero come migliorare in più o meno una settimana. In primo luogo l’autore osserva,  facendo suo il metodo cartesiano, la diffusione della “malattia”, e individua il “contagio” non nelle librerie o nelle scuole, bensì nella solitudine, “dove l’organismo abbassa le sue difese naturali”, per cui, come scrisse Leopardi nel Discorso del 1824, “l’animo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo”. Mostrando poi le diverse facce del contagio (dal poeta oracolare al poeta mitico), tutte meramente intimistiche, Muzzioli ribadisce, giustamente, il carattere impersonale, critico e attivo della poesia, che deriva appunto dal verbo greco poiein (fare), e solleva quel velo privato-borghese che copre buona parte della poesia moderna.

Efficace il momento in cui Muzzioli evidenzia i “tre elementi principali” del morbo: l’io (l’individuo che “si trasforma in feticcio” e che nella poesia trova “uno specchio rassicurante e benevolo”), il vissuto (che rende possibile l’esistenza dell’individualità, essendo materia necessaria per la scrittura che il tempo, però, come ne L’ horloge di Baudelaire, “consuma senza remissione”) e la natura (con la quale l’uomo ha perso i contatti, quell’aura di cui parlava Benjamin, e che crede di poter ritrovare grazie a quella figura retorica e poetica della metafora).

L’autore, con la sua consueta visione anti-crociana, mette da parte alcune parole usate frequentemente nella poesia, quali “amore” o “anima”, che intendono assumere un valore assoluto, e recupera il carattere storico ed immanente della poesia stessa, nonostante sappia che essa “viene da un fuori…ma che quel fuori non è fuori della storia, bensì appunto la storia stessa”. Muzzioli, in seguito, nelle vesti di medico-precettore, mette in guardia il lettore-scrittore dai vari “imbrogli” del mondo editoriale che, al giorno d’oggi, investe prettamente su giovani dalla scrittura facile, specie se possiedono una biografia ricca di dettagli particolari, altrimenti gli aspiranti poeti-scrittori dovranno investire i propri risparmi, senza alcuna garanzia di riuscita, e l’editore diverrà un “semplice stampatore”. “È divenuto impossibile, anzi proibito – dice Muzzioli – recensire un libro di poesia”.

Nella sezione conclusiva della prima parte, l’autore dimostra di credere ancora nel genere poetico e mostra delle possibili terapie, quasi tutte incentrate sulla perdita dell’io: la poesia civile (“impersonale, oggettiva, dura, sferzante”), la poesia comica (che “demistifica tutti i miti, compreso il suo proprio mito”), la poesia-pensiero (ribaltando la visione crociana che vede contrapposti ragione e sentimento), la prosa (in cui “avremo un io che si specchia in un egli”), e infine la critica (che oggi, purtroppo, “è confinata nell’università”). Nella seconda parte del libro, quella riguardante “i consigli dei nonni”, vi sono alcuni frammenti tratti da opere di autori celebri quali, per dirne alcuni, Baudelaire (consapevole di aver perso l’aureola nella modernità, “scivolata giù dalla testa nel fango del selciato”), Lautréamont (“Se siete infelici non bisogna dirlo al lettore. Tenetevelo per voi.”), Majakovskij (che si chiede che senso abbiano i “progetti sublimi”, in un mondo abitato da tanti ingegneri e da nessun operaio), Manganelli (“L’importante è che la poesia accetta la presenza della disperazione – anche quando è pessima poesia – e vuole lavorarci dentro. In realtà è dalla parte della disperazione. La morte parla in rima, in endecasillabi, in versi liberi.”).

L’ultima parte mette in pratica i concetti espressi all’inizio del libro e, riprendendo il sonetto numero XXXV del Canzoniere di Petrarca, prova a renderlo impersonale, tenta di modernizzarlo, lo parodizza e lo rovescia, tentando, senza riuscirci, di allontanare definitivamente il lettore-scrittore dal “nauseante” mondo della poesia. Nella Conclusione, infatti, Muzzioli ammette che, una volta affetti dal morbo poetico, non se ne esce più, invitando tutti a “scrivere delle poesie meno brutte”. Muzzioli, come Baudelaire, sa di aver perso l’aureola, è cosciente del declassamento che ha subito il poeta nella modernità, e, con questo libro, si domanda come sia possibile smettere di scrivere poesia.