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Diritto di critica | April 24, 2024

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Decreto Imu-Bankitalia, ecco tutto ciò che serve sapere

Decreto Imu-Bankitalia, ecco tutto ciò che serve sapere

bankitaliaL’ANALISI – Cosa accade con la rivalutazione delle quote di Bankitalia ancora ferme ai 156 mila euro di valore del 1936, i vecchi e “tanto cari” 300 milioni di lire? Si tratta davvero, come detto, solo di un regalo alle banche? O c’è dell’altro? Dalle sferzanti accuse di truffa ai danni degli italiani, col passare dei giorni, si sta giungendo ad analisi più elaborate e precise, dove accanto all’idea del regalo ai banchieri meritano attenzione anche altre riflessioni. Cerchiamo di inquadrare un argomento su cui è facile sbagliare giudizio, come dimostrano le tantissime analisi rintracciabili in rete, anche di importanti testate, profondamente differenti le une dalle altre. Con la rivalutazione delle quote il capitale di Bankitalia – secondo la legge che recepisce il decreto legge stilato da Saccomanni a novembre scorso – passa a 7,5 miliardi di euro. Vediamo come.

Tutti insieme gli azionisti avevano in mano un capitale di 156 mila euro, per un totale di 300 mila azioni del valore di 0,52 centesimi di euro – i vecchi 300 milioni di lire a mille lire ad azione -, ora, dopo la rivalutazione, si ritrovano con 7,5 miliardi di euro a 25 mila euro ad azione. Che una rivalutazione – dopo quasi 80 anni – dovesse esser fatta sembrerebbe fuori discussione.

Detto ciò, c’è da chiedersi perché non si è fatta quando le banche e le casse di risparmio erano pubbliche o negli anni ’90, quando sono state privatizzate. Ma soprattutto c’è da discutere sul valore della rivalutazione. Visto che secondo alcuni economisti si tratta di una stima decisamente troppo alta, in cui si è adottato il limite massimo di due estremi e non un dato unico e inequivocabile. Tra l’altro le banche sulla scia di Brunetta chiedevano una ricapitalizzazione ben più alta (22 miliardi) a cui il governo si è opposto. Rispetto alla ricapitalizzazione di una normale Spa, si è verificato l’esatto contrario: gli azionisti non hanno messo un euro e il valore della ricapitalizzazione è stato coperto dalle riserve statuarie della Banca d’Italia. Quindi con soldi dello Stato.

Il decreto prevede che gli azionisti non potranno possedere più del 3% di Bankitalia. Ora, dato che alcuni azionisti detengono molto più del 3% – Intesa e Unicredit da sole hanno il 64% del capitale – chi comprerà quelle quote che devono rivendere per forza? La stessa Bankitalia, a cui il governo ha dato la possibilità del Buy back, cioè di ricomprarle temporaneamente per poi rivenderle a un nuovo acquirente, in modo tale da rientrare in possesso delle riserve erogate. Intesa e Unicredit così non solo avranno una rivalutazione del capitale (invece del 64% di 156 mila euro, il 3% di 7,5 miliardi) ma soprattutto riceveranno un mare di denaro vendendo le proprie quote rivalutate alla Banca d’Italia.

Ed è questo il super regalo. I soldi veri, le risorse prese dalle riserve dello Stato che passano direttamente ai privati, sono proprio la parte eccedente il 3% del capitale (che invece resta nella Banca d’Italia), si calcola all’incirca 4,2 miliardi di euro di cui beneficiano solo i gruppi in possesso di grosse concentrazioni, vedi Intesa e Unicredit. Questo permetterà senz’altro di migliorare il loro patrimonio, anche se – nonostante l’emendamento Pd che rendeva la legge retroattiva – le banche non potranno inserire la rivalutazione delle loro quote nel bilancio 2013 in modo da poter superare gli stress test imposti dalla Bce preliminarmente all’avvio dell’Unione bancaria. Il che, secondo alcuni, potrebbe comportare anche una ulteriore ricapitalizzazione imposta dall’Europa.

Importante e spesso esposta in maniera fuorviante è anche la questione dei dividendi, vale a dire, un altro bel regalo. La confusione nasce con la modifica avvenuta prima di Natale, quando lo Statuto è stato cambiato in tutta fretta mentre il decreto non era ancora stato sottoposto alla verifica parlamentare. Forse il segno di come si fosse già deciso tutto, oltre che la causa di quanto si è visto alla Camera? Come specifica l’articolo 40, comma 2 del nuovo Statuto di Bankitalia: “L’utile netto è così destinato: a) alla riserva ordinaria, fino alla misura massima del 20 per cento; b) ai partecipanti, fino alla misura massima del 6 per cento del capitale; c) alla riserva straordinaria e ad eventuali fondi speciali fino alla misura massima del 20 per cento; d) allo Stato, per l’ammontare residuo”. L’articolo 40 è molto importante. Perché testimonia che con più del 50% degli utili lo Stato detiene almeno di fatto la maggioranza, mentre ai soci privati viene garantito un dividendo su una piccola parte dell’utile netto conseguito dalla banca centrale che può arrivare fino al 6% del capitale (i famosi 7,5 miliardi). Ai soci andranno fino a un massimo di 450 milioni di euro di profitti l’anno, sei volte di più dei 70 milioni ricevuti fino ad ora e risultanti da un altro sistema di calcolo dei dividendi. Si tratta di dividendi provento di utili netti creati con beni pubblici in regime di monopolio. Che vadano alle banche ogni anno è veramente un regalo di cui non si comprende il motivo.

Eppure, e va detto, in questo modo la Banca d’Italia mette fine a un potenziale conflitto di interesse. Il punto è importante. Infatti, il cambio dello Statuto ha inserito una modifica sostanziale nel calcolo dei dividendi. I dividendi derivavano da una percentuale massima del 10% del capitale (ancora 156 mila euro e quindi quindicimila e seicento euro) a cui poteva aggiungersi fino al 4% delle riserve, ovvero, considerando i circa 23 miliardi di riserve ordinarie, una cifra variabile e potenzialmente altissima, tanto che sulle riserve si era soliti staccare il dividendo ad una percentuale molto più bassa che ai soci garantiva i 70 milioni di euro annuali. Prima, il Consiglio superiore della banca – nominato dall’assemblea dei partecipanti, cioè dagli azionisti – decideva degli utili da accantonare nelle riserve (fino al 40%), togliendoli alla disponibilità dello Stato. Ovvio che la percentuale del dividendo (massimo il 4%) sulle riserve potesse variare a seconda di quanto più utile netto vi venisse dirottato – forse non è un caso se le riserve della Banca d’Italia sono sempre state molto più alte di quelle detenute dalle banche centrali europee, circa il triplo – e che chi venisse eletto in Consiglio potesse in qualche modo avere la tentazione di sdebitarsi con i suoi elettori.

E veniamo all’aggancio con l’Imu. In cambio di quello che costituisce “il regalo” di cui abbiamo letto e riletto, le banche accettano di farsi tassare sulle plusvalenze guadagnate per creare un gettito da un miliardo e mezzo di euro (900 milioni di euro dalle plusvalenze, il resto dall’anticipo, già versato, dell’acconto Ires e Irap 2013 portato al 130%) utile a coprire buona parte del mancato incasso della seconda rata Imu 2013. La tassazione, però, anziché al 20% verrà fatta al 12% (prima si era optato per il 16), con un risparmio per i soci di circa 370 milioni di euro. Altro regalo?

Un’altra grossissima novità è che d’ora in avanti, le quote della partecipazione alla nostra banca centrale, che prima non potevano essere vendute, saranno liberamente trasferibili, quindi scambiabili sul mercato. E qui vale la pena soffermarsi. Il capitale di Bankitalia era rimasto per quasi ottanta anni a 156 mila euro proprio perché le quote non potevano essere vendute. In altre parole, si trattava di un valore senza alcuna importanza. Ma adesso, per essere scambiate sul mercato le quote devono avere una valutazione per l’appunto “di mercato” e quindi essere rivalutate. Il problema è: serviva renderle scambiabili? E se sì, serviva rivalutarle così in alto? La domanda è d’obbligo dato che in tema, ripetiamo, si trova un po’ tutto e il contrario di tutto

Un altro tratto di questa riforma “storica” di tutto l’assetto proprietario di Bankitalia, porta all’impossibilità per i partecipanti di creare grosse concentrazioni di capitale, come era avvenuto per Intesa e Unicredit dopo la fine delle banche pubbliche e delle casse di risparmio. In tal modo non si avranno all’interno soci troppo ingombranti. Secondo il provvedimento, il Consiglio superiore della Banca d’Italia «valuterà la professionalità e la onorabilità dei soggetti entranti e delle relative compagini, con un diritto di veto». In molti si sono chiesti se oggi sia possibile mettere la mano sul fuoco sul fatto che i nuovi azionisti non siano controllati in qualche modo da altri soggetti extraeuropei, oppure, se il limite stesso del 3% sia aggirabile da un accordo di più soggetti decisi a condizionare la banca centrale. In realtà, nulla sembrerebbe cambiare rispetto al passato visto che Bankitalia è un istituto di diritto pubblico e “nell’esercizio delle proprie funzioni e nella gestione delle proprie finanze, la Banca d’Italia e i componenti dei suoi organi operano con autonomia e indipendenza nel rispetto del principio di trasparenza, e non possono sollecitare o accettare istruzioni da altri soggetti pubblici e privati” (art. 1, comma 2, Statuto di Bankitalia). Tuttavia la questione è al centro di mille polemiche visto che le quote nominative di partecipazione al suo capitale sono per il 94,33% di proprietà di banche e assicurazioni private, per il 5,66% di enti pubblici come l’Inps e l’Inail. I soggetti autorizzati a entrare nel capitale (e dunque i possibili acquirenti) sono banche e assicurazioni anche europee ma solo con sede legale e amministrativa in Italia, fondazioni bancarie, enti di previdenza e assicurazioni italiane, fondi pensione registrati in Italia. Nel 1936 i soci erano tutti pubblici, poi, negli anni ’90, con la fine del controllo pubblico sulle banche e la privatizzazione di banche e casse di risparmio, i privati entrano in Bankitalia e fondendosi fra loro creano l’assetto attuale. Da qui nasce l’anomalia, una banca centrale che è istituto di diritto pubblico, ma i cui soci sono privati.

A mettere il punto è intervenuta anche la Cassazione che lo ha ribadito a sezioni riunite, con la sentenza 16751 del 21 luglio 2006, affermando che la Banca d’Italia “non è una società per azioni di diritto privato, bensì un istituto di diritto pubblico secondo l’espressa indicazione dell’articolo 20 del R.D. del 12 marzo 1936 n.375”. La proprietà può quindi essere di soggetti privati, ma la banca non risponde in alcun modo agli azionisti del suo operato e pur avendo forma privata è e resta nelle mani dello Stato. Il fatto che Bankitalia sia un ente pubblico esclude il suo fallimento e, tramite il suo intervento nei casi di crisi, la possibilità di fallimento delle banche private, garantendo la stabilità dell’intero sistema bancario italiano. Le sue decisioni sono vincolanti per le banche, mentre l’attività di vigilanza e la regolazione dell’offerta di moneta avvengono nell’interesse economico generale, che può anche essere diverso e antitetico rispetto a quello dei soci proprietari. L’autonomia di Bankitalia rispetto agli azionisti privati è incarnata dalla figura del governatore, nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio, previa deliberazione del Cdm e sentito il Consiglio superiore di Bankitalia. Ma se il governatore non viene eletto e non deve rispondere al Cda composto dagli azionisti, allora, più che dai privati, forse, una minaccia alla sua autonomia e all’indipendenza potrebbe venirgli dai partiti, molto presenti nelle fondazioni bancarie e molto attenti alla nomina del numero uno di palazzo Koch.

Finora tutto sommato il sistema Bankitalia è stato al centro di rilevanti vicende giudiziarie ma ha garantito utili al Tesoro e riserve allo Stato. E adesso? Cosa cambierà? Di diverso pare esserci molto poco. A cominciare dal solito regalo alle banche.

 

Comments

  1. Donny Darko

    mi chiedo il perchè di tutto questo ..a chi gioverà ..e soprattutto ..quale tornaconto ne riceverà… dal prossimo “provvedimento mascherato” del “rientro dei capitali” all’estero ..perche la politica ha interesse ad essere cosi vicina alle banche?

  2. Giancarlo De Palo

    Ottimo aricolo: chiarp, esauriente ed imparziale.