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Diritto di critica | March 15, 2024

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Le stragi senza fine e i delicati equilibri in Iraq

Obama fa la voce grossa, l'Iran interviene. L'ex stato di Saddam di nuovo al centro del puzzle mediorientale

Nei giorni scorsi le città di Mosul, Tikrit e Fallujah sono repentinamente cadute in mano ai jihadisti dello Stato Islamico di Iraq e il Levante (Isil); una circostanza insolita visto e considerato che, oltre al fatto che i jihadisti erano circa 800 rispetto ai 3500 soldati iracheni, la storia insegna come il combattimento in area urbana sia sempre stato molto difficile, in particolar modo per chi attacca, visto che la difesa può facilmente trovare riparo tra vie, palazzi e all’interno di edifici; la visibilità risulta limitata, gli scontri avvengono a breve distanza e i veicoli pesanti come carri armati e mezzi blindati fanno fatica a muoversi. Vi è poi il problema del coinvolgimento dei civili, che rischiano di essere colpiti.

La rapida avanzata dei jihadisti è certamente stata facilitata da diserzioni di massa da parte dei soldati dell’esercito iracheno che seppur ben equipaggiati, risultano altamente impreparati e disorganizzati. Vi è però un ulteriore elemento chiave che ha aiutato la conquista delle città del nord del paese da parte dei terroristi: l’appoggio dei sunniti iracheni, alimentati da un feroce sentimento anti-sciita. I sunniti iracheni negli ultimi anni sono diventati particolarmente ostili al governo del primo ministro Nuri al-Maliki che, secondo loro, avrebbe monopolizzato il potere e implementato una serie di politiche a favore della maggioranza sciita. L’ISIS era ben consapevole di questo ed è riuscito a strumentalizzare la situazione ricevendo supporto dalla popolazione e da gruppi jihadisti locali.

A Mosul ad esempio, alcuni importanti leader sunniti hanno iniziato a organizzare milizie volontarie per attaccare l’esercito iracheno dall’interno e molti sunniti fuggiti hanno dichiarato di preferire l’Isil al governo sciita.

Così si spiega la “strana” fuga di più di 3500 soldati iracheni, molti dei quali sunniti come l’Isil, che non erano fronteggiati soltanto da qualche centinaio di jihadisti, ma anche da milizie interne.

Isil: genocidio e crimini contro gli sciiti e la connivenza dei leader sunniti

L’Isil, una volta entrato nelle città conquistate, ha subito messo in atto le atrocità per cui è tristemente noto anche in Siria; comuni cittadini uccisi con esecuzioni sommarie in piazza, donne che si sono suicidate dopo essere state violentate, centinaia di soldati iracheni fucilati e le esecuzioni filmate, fotografate e caricate su un sito jihadista. Molti criminali comuni sono stati liberati dalle carceri per essere arruolati nelle file dei terroristi, perché di tali si tratta.

Mentre i jihadisti dell’Isil commettevano crimini di ogni tipo e la prima guida spirituale sciita del paese, l’Ayatollah Ali al-Sistani, chiamava gli sciiti a unirsi e mobilitarsi in difesa dei correligionari, massacrati, dichiarando giustamente che “respingere i terroristi è responsabilità di tutti i musulmani, a prescindere dalla setta di appartenenza”, il leader sunnita iracheno Rafi al-Rifae dichiarava che coloro che stanno dilaniando il nord del paese e trucidando civili “non sono terroristi ma soltanto “ribelli” e non è giusto accusarli di far parte dell’Isil perché in questo modo si rischia di creare divisioni all’interno dei gruppi di ribelli che stanno “liberando” le città dal governo del primo ministro Nuri al-Maliki.

Come se non bastasse, nella giornata di sabato l’Unione degli Scolari Musulmani qatariota, capeggiata dal noto predicatore sunnita nonché guida spirituale dei Fratelli Musulmani, Yousef al-Qaradawi, ha rilasciato una dichiarazione nella quale si criticava la chiamata alla difesa da parte del leader sciita iracheno perché così si rischia di causare una “guerra settaria devastante”. Il comunicato definiva inoltre l’assalto dei terroristi dell’Isil una “rivoluzione sunnita”. L’USM dichiarava inoltre che i “fratelli sciiti” dovrebbero stare vicino ai loro fratelli sunniti per trovare una soluzione fattibile.

Obama riflette, aspetta, forse decide

Gli Stati Uniti ancora una volta sembrano incapaci di prendere decisioni, Obama fa la voce grossa ma non troppo, afferma di sostenere Baghdad e di prendere in considerazione un intervento aereo per bersagliare i jihadisti, ma nel frattempo dichiara “non possiamo fare noi il lavoro per loro”, riferendosi al governo iracheno. La Casa Bianca ordina alla portaerei US George HW Bush di dirigersi nel Golfo Persico, ma con calma, c’è tempo, intanto i massacri continuano.

Una situazione che abbiamo già visto in Siria, quando Obama dichiarò che l’uso di armi chimiche e biologiche avrebbe superato la “linea rossa per un possibile intervento militare nel paese”. Le armi chimiche sono state usate ripetutamente, verosimilmente da entrambe le parti, ma gli Stati Uniti non sono mai intervenuti.

In Egitto le cose non sono certo andate diversamente, con l’amministrazione americana che ha sostenuto fino all’ultimo il regime “democraticamente eletto” di Mursi nonostante le manifestazioni di piazza e le richieste di elezioni anticipate da parte del popolo; gli Stati Uniti hanno inizialmente sospeso i rifornimenti militari all’Egitto in seguito alla sommossa popolare dello scorso luglio, appoggiata dall’esercito, definendola “golpe”; poi però hanno cambiato idea in seguito alla vittoria elettorale di al-Sisi; Obama lo ha chiamato, si è congratulato con lui e ha affermato di voler lavorare assieme al nuovo governo egiziano per l’interesse di entrambi i paesi.

L’Iran interviene

Mentre Obama valutava, l’esercito iraniano entrava in azione, valicando il confine ed entrando in Iraq con 2000 truppe Basiji e con le Guardie Rivoluzionarie.

Già nella giornata di venerdì il Generale Maggiore delle Guardie Rivoluzionarie, Qassem Suleimani, era a Baghdad per supervisionare la difesa della capitale irachena.

Non è un caso che sabato l’esercito iracheno ha riconquistato la zona di Muttassim, a nord di Baghdad, riaprendo la via che dalla capitale porta a Samarra e uccidendo circa 170 terroristi.

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