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Diritto di critica | March 18, 2024

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"Il filo nascosto", l'ultima perla da Oscar di Daniel Day-Lewis

Il film candidato a 6 statuette incanta per la sua eleganza e autenticità. E non fa accettare che sia la prova di addio dell’attore inglese

“Il filo nascosto”, ultima perla da Oscar di Daniel Day-Lewis

“Il filo nascosto” è una semplice storia di vita. Sorprendente e senza filtri, e stavolta persino leggiadra. Ma è anche un film classico, elegante e ben fatto. A undici anni da “Il petroliere”, il regista Paul Thomas Anderson ritrova l’ultimo Daniel Day-Lewis, in procinto (ahinoi) di lasciare le scene, in un racconto di amore e ossessione, arte e creatività. Ambientato nella Londra raffinata degli anni Cinquanta, il film ci conduce nel mondo dello stilista Reynolds Woodcock, genio angosciato che rifugge il glamour che lo circonda e riesce ad amare solo se inerme o in preda alla paura. L’incontro con l’ultima delle sue muse, Alma, che narra la storia, ci porterà a conoscere ancora di più la sua natura, e il gioco sottilissimo che si crea tra due persone diverse.

Il regista della psiche Che Paul Thomas Anderson sia uno dei registi che meglio e più volentieri indagano sull’animo umano è un dato di fatto. Ma in produzioni passate, come “The master” e “Vizio di forma”, le tortuosità della psiche e dei rapporti venivano fuori troppo prepotentemente, rendendo il film ostico per lo spettatore. Qui invece la trama è intessuta con più ariosità, e vi troviamo tutto: drammaticità e frivolezza, disagio e dolcezza, ma anche la poesia e una velata nota ironica, a creare un equilibrio quasi perfetto. “Il filo nascosto” è solo apparentemente un film sulla moda, moda che peraltro è intesa nel senso più nobile e sartoriale del termine, contro la mancanza di gusto della borghesia cafona (lo stesso Reynolds reagisce con irritazione e sprezzo alle parole “chic” e “alla moda”: «Chic? Non usare quella parola schifosa! Chiunque abbia inventato questo termine dovrebbe essere picchiato in pubblico»).

Un attore di classe per un film di classe Per prepararsi al ruolo di Woodcock, Daniel Day-Lewis ha imparato a cucire e confezionare un abito di alta moda. E infatti, a guardarlo sullo schermo, pare che non abbia mai fatto altro. La sua notoria completa immersione nel personaggio porta, anche quest’ultima volta, ad un risultato eccellente: il suo Reynolds è tratteggiato vivido e naturale, con la routine maniacale, le piccole fobie, le pause dolorose tra un’ispirazione e l’altra. E la rassicurante, liberatoria abitudine di nascondere messaggi negli orli delle sue creazioni, o piccoli segreti negli abiti personali («Si può cucire qualsiasi cosa dentro la stoffa di un vestito»). Lo stilista è perseguitato da fantasmi passati e complesse dinamiche con le donne di famiglia (il rapporto incombente con la madre defunta, quello morboso con la sorella, quest’ultima splendidamente interpretata, nella sua freddezza tutta chignon e rossetto rosso). Il suo estro si scontra con l’incomunicabilità nelle relazioni. E la cinepresa lo asseconda.

La cura dei dettagli È come se vedessimo vivere e pensare il protagonista: i primissimi piani, i mormorii tra una battuta e l’altra, perfino i sospiri e le pause, illuminanti. L’indugiare, con la calma da vecchio film, sugli oggetti che lo circondano, le parti di stoffa e le cuciture, che non sono solo il suo lavoro, ma dicono molto altro. Ogni pregiato abito (tutti quelli del film sono creazioni originali) nasconde e rimanda alla persona che lo ha creato. La colonna sonora segue l’Io del personaggio che si svela, e l’ambiente lo rappresenta: scale infinite, porte, pertugi, angoli in penombra, Londra e la grigia campagna inglese.

Un film classico a rischio Oscar La pellicola è candidata a sei premi Oscar, tra cui quello di “miglior attore protagonista”, “miglior film” e “migliore regista”. L’ennesimo, meritato riconoscimento per Anderson, che ha ammesso candidamente: «Non so nemmeno io cosa sto cercando di raccontare con i miei film. Ma la mia ispirazione viene dai film degli anni Quaranta e Cinquanta, da sempre. “Il filo nascosto” è il mio personale omaggio al cinema di Max Ophüls. Non uso le moderne convenzioni cinematografiche quando scrivo o dirigo, così come non amo la maggior parte delle innovazioni tecnologiche. Il cinema che amo e che voglio fare è quello che non c’è più».

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