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Diritto di critica | March 15, 2024

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Il reddito di cittadinanza così non funzionerà

di | 02 Mar 2019Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard

Lo chiamano reddito di cittadinanza ma non lo è. Infatti, non è una misura universale rivolta a tutti i cittadini. Non è un diritto che si acquisisce alla nascita. È, invece, una prima forma di sussidio di disoccupazione universale, cioè rivolto a tutti i lavoratori, dipendenti o autonomi, che perdono la loro fonte di reddito e si ritrovano in difficoltà. A livello puramente teorico è una delle misure di cui gli italiani avevano bisogno, di fronte alla precarizzazione del lavoro e alla creazione, 20 anni fa, di lavoratori tutelati e lavoratori senza tutele pur con un rapporto di lavoro assimilabile a quello subordinato. Ma poi, il passaggio dalla teoria alla pratica ha mostrato e mostrerà tutti i limiti di una riforma fatta per metà e gonfiata da pesanti iniezioni di populismo.

Diciamolo subito: per fare una seria riforma dei sussidi di disoccupazione bisognava azzerare tutte le altre forme di sostegno. Cancellare tutto per utilizzare le stesse risorse (o incrementarle attraverso una ridistribuzione della ricchezza) per un sistema universale, non rivolto a tutti i cittadini indiscriminatamente, bensì a tutti coloro che sono nel mercato del lavoro e che hanno perso la loro occupazione a causa della crisi. Questo, il cosiddetto reddito di cittadinanza non lo fa. Rimangono i vecchi strumenti, ai quali si aggiunge un sistema fragile che mischia lavoratori senza impiego con persone non in grado di lavorare.

La prima fragilità di questo reddito di cittadinanza riguarda le tempistiche applicative. Distribuire reddito senza aver messo a punto un sistema serio di reinserimento nel mondo del lavoro è sbagliato. Perché non basta assumere i cosiddetti navigator. Serve una riorganizzazione degli uffici di collocamento che non si può ottenere in pochi mesi. È necessario creare un sistema efficiente che realizzi una rete forte con le imprese del territorio, anche con il supporto di società esterne che operano nel settore del recruitment da anni. In poche parole: è necessario prima far in modo che gli uffici dell’impiego possano favorire al massimo l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, e poi si pensa al resto. Al momento le strutture pubbliche sono disastrose. Meno del 3% dei lavoratori italiani riesce a trovare un impiego attraverso di loro.

L’annunciato flop dei centri dell’impiego trasformerà questo sistema di reinserimento in un’operazione assistenziale, che non prevede incentivi di alcun tipo per chi ne usufruisce. Nel nord Europa, per esempio, molti sistemi di questo tipo prevedono un sostegno decrescente con il tempo. In questo modo, il lavoratore sarà incentivato a cercare un nuovo impiego e non ad attendere che sia lo Stato ad avere l’onere del ricollocamento. Inoltre, sono previsti corsi di aggiornamento che in Italia, al momento, sono solo su carta. Chi li farà? In cosa consisteranno? Al momento non è dato saperlo. Intanto lo Stato dovrà cercare lavoro

Altro elemento critico di questo reddito di cittadinanza riguarda i giovani. Si tratta di una misura che potrebbe aiutare per esempio una giovane coppia di precari di età compresa tra i 28 e 40 anni che convive, cioè una giovane coppia che ha avuto almeno in passato gli strumenti per pagare un affitto o un mutuo. Mentre questa misura non fornisce alcun aiuto ai giovani che vivono a casa dei genitori (normalmente in un’età compresa tra i 20 e i 35 anni) perché incapaci di ottenere un impiego stabile o un reddito quanto meno idoneo per essere autosufficienti. L’annosa questione dei “bamboccioni”, quindi, non viene affrontata.

Il reddito di cittadinanza, così come è strutturato e al di là delle inevitabili frodi, non è la “bacchetta magica” che cancella tutti i mali di un mercato del lavoro viziato. Il sistema Italia rischia solo di veder schizzare alle stelle il suo debito pubblico che le future generazioni dovranno sostenere. Perché non è una misura che crea lavoro. Il lavoro si crea con forti riduzioni del cuneo fiscale. E l’occupazione giovanile si crea eliminando l’Irpef sullo stipendio nei primi due anni di rapporto di lavoro. Serve poi un sistema Paese in grado di attrarre investitori stranieri e di trattenere quelli italiani, partendo da una seria riforma della giustizia e da politiche coerenti a una strategia organica. Dopo tutto questo il reddito di cittadinanza (che dovremmo chiamare sostegno universale di disoccupazione) avrà un senso. Cioè reinserire. Così, sarà solo la vecchia ricetta assistenziale simile alle assunzioni nei posti pubblici di qualche decennio fa. Ma meno ipocrita. Non bisogna più strisciare o timbrare il cartellino.