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Diritto di critica | April 17, 2024

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L'Aquila 22 mesi dopo, tra rassegnazione e progetti di rinascita - Photogallery - Diritto di critica

L’Aquila 22 mesi dopo, tra rassegnazione e progetti di rinascita – Photogallery

La prima impressione che si ha dell’Aquila è il silenzio. Impregna ogni angolo del centro storico, dei quartieri distrutti e disabitati dove il vento muove ancora i panni stesi sui balconi o le tende negli appartamenti sventrati. Di tanto in tanto è rotto dal rumore della neve che gocciola dai tetti e dalle impalcature, dal suono di una macchina in una strada lontana, dallo svolazzare dei piccioni. Ma questi non sono i suoni di una città che sta pian piano riprendendo a vivere, come qualcuno vorrebbe far credere. Nonostante le recinzioni rosse e le scritte ‘lavori in corso’, infatti, sono ben pochi i cantieri attivi, pochi i palazzi ristrutturati. Troppo pochi, per una città dove “l’emergenza è stata risolta” al punto da non meritare nemmeno più l’attenzione di media e Governo.

Le strade, quelle ci sono, così come ci sono le palazzine ‘provvisorie’ del Progetto CASE, sparse nella periferia, tra le frazioni e nei comuni limitrofi a L’Aquila, oppure i villaggi di MAP (Moduli Abitativi Provvisori) che emergono dalla nebbia senza un cartello che indichi come arrivarci: villaggi e insediamenti sorti dal nulla e destinati a rimanervi ancora per anni, perché la speranza di vedere avviati i lavori di ricostruzione e recupero dei centri abitati pare ancora lontana. «Il problema di L’Aquila – spiega Claudia Comencini, architetto attiva nel Comitato per la Rinascita di Pescomaggiore (AQ) – è stata la completa mancanza di una pianificazione globale del territorio». Il piano regolatore, infatti, risalirebbe infatti agli anni Settanta e si baserebbe su norme obsolete: non era mai stata fatta una mappatura degli edifici né era stata individuata una zona da adibire alle emergenze. «Così la città – continua Comencini – pur essendo zona sismica da sempre non aveva soluzioni per un’emergenza come il terremoto del 6 aprile 2009 ed è stata costretta ad accettare quelle imposte dal Governo. Questo non significa però – aggiunge – che le soluzioni del Governo siano state buone, anzi».

Il riferimento è al costo di costruzione delle palazzine del Progetto CASE (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili) che, secondo i dati ufficiali del Dipartimento di Protezione Civile, sarebbe di 778 milioni di euro per circa 2.700 euro al metro quadro, oltre che alla modalità stessa di costruzione:  l’utilizzo di un doppio impianto antisismico con piastre di acciaio posizionate su pilastri sempre d’acciaio è infatti una tecnologia relativamente nuova che – secondo una recente inchiesta della Procura aquilana – avrebbe fatto triplicare i costi delle strutture rispetto all’utilizzo di impianti più tradizionali e a parità di sicurezza antisismica. «Inoltre – aggiunge Comencini – i terreni sono stati espropriati, non sono stati pagati gli oneri di urbanizzazione, lo stesso progetto è stato usato più volte e persino le finiture sono peggiori di quelle nella più infima edilizia popolare: ne risultano quindi costi davvero eccessivi».  È inoltre di qualche settimana fa la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati della Procura aquilana di Gian Michele Calvi (ideatore del Progetto CASE) e di Mauro Dolce (responsabile del settore antisismico del Dipartimento di Protezione Civile), accusati di “frode nelle pubbliche forniture” per aver spinto a favore dell’utilizzo di materiali senza alcuna garanzia sperimentale e non omologati nelle palazzine: omologazione che sarebbe avvenuta solo a costruzione ultimata.

Anna, alloggiata nelle palazzine del Progetto CASE nei pressi di Camarda, conferma gli sprechi e la bassa qualità di alcune opere: «molte cose negli appartamenti si sono già rotte o rovinate perché di pessima qualità, eppure erano tutte nuove, oltre che completamente inutili: calici per il vino, portachiavi personalizzati. Chissà quanti soldi ci hanno speso». E per i MAP la situazione non è certo migliore: pareti di cartongesso, strutture montate male (con fessure sul tetto e quasi non isolate), impianti sottodimensionati rispetto al clima della regione, mobili ed elettrodomestici nuovi ma spesso di qualità scadente, suppellettili tanto inutili quanto costose. «Se i soldi spesi per oggetti superflui fossero stati usati per la ricostruzione dei  nostri paesi – denuncia Peppino, 70 anni, che abita nei MAP della Protezione Civile presso Fossa, piccolo paese disabitato da dopo il terremoto – forse tra qualche anno potremmo tornare nelle nostre case, ma è tutto fermo. E noi restiamo bloccati qui». «Bisogna tentare di riprendere la propria vita –  dice Romina, vicina di casetta di Peppino – anche se la maggior parte della ‘vita di prima’ è rimasta nelle vecchie case. Ricordi, fotografie, oggetti cari che no posso portare qui nel MAP perché non c’è abbastanza posto. E in tutto questo, la sensazione di essere trattati come cittadini di serie B, di cui non vale più la pena di parlare».

Ma c’è anche chi ha rifiutato l’approccio assistenzialistico e mediatico del Governo e delle istituzioni ed ha cercato di mettere in atto progetti di rinascita partecipati ed attivi. Un modo per smentire anche le parole dell’esponente leghista Mario Borghezio, che durante una puntata del programma KlausCondicio agli inizi di gennaio aveva affermato che «l’Abruzzo è un peso morto come tutto il Sud. […] Abbiamo assistito per mesi a lamentele e sceneggiate. Eccezioni ci sono dappertutto, ma complessivamente è stata un po’ una riedizione rivista e corretta dell’Irpinia: prevale sempre l’attesa degli aiuti, non ci sono importanti iniziative autonome di ripresa. Si attende sempre che arrivi qualcosa dall’alto, nonostante dall’alto arrivi molto». E mentre gli aquilani si chiedono se il ‘molto’ arrivato dall’alto comprenda anche le umiliazioni da parte di chi si è ricordato di loro solo in vista del G8 o sulla loro tragedia ha costruito il suo business, qualcosa si muove.

Così, accanto all’idea di costituire L’Aquila per  aggregati gestiti da consorzi di cittadini, c’è anche chi ha pensato di ideare nuove tipologie costruttive, spesso molto più economiche e funzionali di quelle governative, come è successo a Pescomaggiore dove il Comitato per la Rinascita del paese ha costruito il Villaggio Eva, le cosiddette ‘case di paglia’. Si tratta di strutture portanti in legno su basamenti di calcestruzzo e isolate con balle di paglia coperte da una rete e poi intonacate: una tipologia edilizia già molto diffusa in nord Europa e in diverse aree del mondo. Finora a Pescomaggiore ne sono state realizzate tre ed altrettante sono in programma o in fase di realizzazione. «Il villaggio – spiega Comencini che ha seguito parte dell progetto – è stato costruito sulla base di una disposizione temporanea del comune successiva al terremoto che disciplinava la possibilità, per chi avesse avuto il terreno, di costruirsi insediamenti provvisori. Il terreno è stato invece concesso in comodato d’uso gratuito e perpetuo al Comitato – continua – e i costi di costruzione sono stati coperti completamente grazie alle donazioni e al volontariato: nessuna sovvenzione pubblica perché non ne erano previste per le iniziative private». Calcolare i costi effettivi delle strutture non è facile perché la manodopera era volontaria e sono stati comprati anche gli attrezzi: le stime approssimative di chi ha seguito i lavori in ogni fase della costruzione parlano comunque di circa 1000 euro al metro quadro. «Un prezzo simile a quello dei MAP – specifica Comencini – ma il risultato è molto migliore, sia in termini di qualità che di valore umano del progetto».

La prossima sfida del Comitato è riaprire un vecchio forno rimasto attivo fino agli anni ‘70 e rinnovare sia un rifugio che una vecchia scuola nei pressi di Pescomaggiore: la scuola diventerebbe un centro polifunzionale di aggregazione e il rifugio permetterebbe un rilancio turistico della zona. Sono stati inoltre trovati alcuni demani pubblici in disuso che potrebbero essere convertiti a uso agricolo e creare così nuovi posti di lavoro. «Non si tratta solo di un progetto edilizio, ma di un piano di rinascita più ampio. Ciò che dà valore a questo villaggio – continua Comencini – è il fatto che non si tratta di un progetto imposto dall’alto ma di idee partecipate, nate dalla volontà della gente di rifiutare l’approccio del Governo e far rinascere il proprio paese. Un paese segnato dal terremoto ed apparentemente senza futuro – conclude – che invece ha preso in mano le sue sorti e si sta rialzando. Pian piano. E da solo».

Fotografie: Erica Balduzzi

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