Il New York Times contro WikiLeaks: la guerra dell'informazione - Diritto di critica
WikiLeaks ha rischiato di perdere la faccia quando, a fine aprile, le più recenti rivelazioni riguardo ciò che accade dietro le sbarre del carcere di Guantanamo, stavano per essere anticipate dal New York Times e dal Guardian. Tramite fonti segrete, i due celebri quotidiani hanno messo le mani sui 779 file della prigione cubana senza che Assange, a capo di WikiLeaks, lo volesse. Ma è soltanto l’ultimo capitolo di una vera e propria battaglia sotterranea tra due mostri sacri del giornalismo internazionale e il “pivellino” Julian Assange, trattato come una fonte, ma portatore di una visione diversa del mondo dell’informazione.
Tutto è cominciato lo scorso luglio, quando l’organizzazione WikiLeaks ha deciso di mettersi in contatto con 3 dei più importanti giornali del pianeta per avviare una collaborazione che avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo diplomatico e militare americano. The Guardian in Gran Bretagna, The New York Times negli Usa e Der Spiegel in Germania si accordarono con il capo di WikiLeaks, l’australiano Julian Assange, per divulgare circa mezzo milione di dispacci riservati del governo americano riguardo le guerre in Iraq e Afghanistan. Le informazioni attirarono l’enorme attenzione dei media internazionali, generarono dibattito e aumentarono a dismisura la popolarità di Julian Assange.
Da allora, la strategia di WIkiLeaks è radicalmente cambiata, aprendo le collaborazioni a un più ampio numero di testate. Lo stesso Assange ha fatto sapere che attualmente Wikileaks intrattiene collaborazioni con più di 50 partner, la maggior parte dei quali testate quotidiane, in tutto il mondo. Tra loro, però, mancano i partner originari: il Guardian e il New York Times.
All’origine della rottura, alcuni comportamenti del quotidiano newyorkese che, secondo il suo direttore Bill Keller, sarebbero stati dettati dalla paura di mettere in pericolo alcuni informatori citati nei leaks al tempo della seconda ondata di cable, mentre Assange giudicò la condotta di The Times semplicemente come scorretta. Alcuni editoriali e dichiarazioni rilasciati da Keller e poco graditi ad Assange fecero il resto e la collaborazione terminò. Poi toccò al Guardian chiudere ogni rapporto, che in occasione della terza pubblicazione di Wikileaks non rispettò la condizione imposta da Assange di non rivelare i contenuti all’odiato New York Times.
Il terzo capitolo della burrascosa relazione tra Wikileaks e il New York Times ha inizio la scorsa settimana. L’ultima domenica di aprile otto organizzazioni giornalistiche americane e inglesi, in accordo con WikiLeaks, hanno rivelato numerosi dettagli sulle condizioni dei detenuti del carcere americano di Guantanamo, a Cuba, scuotendo ancora una volta l’opinione pubblica americana. Ma la pubblicazione “ufficiale” dei documenti è stata largamente anticipata, una volta che Assange ha scoperto che anche il New York Times e il Guardian avrebbero pubblicato le stesse informazioni, ma ottenute da una fonte diversa.
Una sorta di leak del leak, un’ironica fuga di informazioni, all’interno di un’organizzazione che lavora proprio per rendere pubbliche le fughe di informazioni riservate del governo americano. Eppure, Assange non l’ha presa per nulla sportivamente e con un tweet sulla pagina di WikiLeaks ha pubblicamente accusato Daniel Domschiet-Berg, ex numero due di WikiLeaks, di essere il responsabile dello spionaggio in favore dei due quotidiani “nemici”: “Domschiet, NYT e Guardian – si legge su Twitter – hanno tentato di rivelare in anticipo le informazioni in mano al “gruppo degli otto”. L’abbiamo scoperto e abbiamo pubblicato i documenti prima di loro”.
Alla base dell’ostilità di Times e Guardian verso WikiLeaks, e viceversa, c’è probabilmente una diversa visione del giornalismo. I due quotidiani hanno un atteggiamento più cauto, più incline a selezionare le informazioni al posto del lettore: solo quelle più significative, e meno pericolose, meritano di essere diffuse. Giornalisti “vecchia maniera” hanno accuratamente scelto sette tra i 779 file dell’archivio riguardante Guantanamo, e hanno sviluppato altrettante storie, complete di contesto e retroscena. Il fine è mantenere una certa autorevolezza, badare alle conseguenze di quello che si pubblica e prendersi cura del lettore, guidarlo verso il diritto ad essere informato.
A WikiLeaks tutto questo non importa. Si tratta di un’organizzazione nata in piena era del web 2.0, un momento storico in cui la considerazione per il lettore è massima, al punto da considerarlo autore delle stesse informazioni che legge. L’intento di Assange è sempre stato quello di pubblicare tutte le informazioni riservate senza alcun filtro, senza scegliere cosa è importante e cosa non lo è, cosa è pericoloso e cosa è innocuo. La decisione viene interamente delegata a chi consulta l’archivio di Wikileaks, che è totalmente libero di scegliere quali informazioni leggere e come utilizzarle.
Si tratta di due concezioni opposte, entrambe con i vantaggi e gli svantaggi del caso. Ma non è detto che bisogna scegliere: per ora convivono. Anche se a fatica.