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Diritto di critica | April 20, 2024

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In Ucraina rischiamo la terza guerra mondiale

L'ANALISI - La prova di forza degli Usa e la presenza russa nella regione può destabilizzare l'Europa

di | 12 Feb 2015Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard

In Ucraina rischiamo la terza guerra mondiale? Si, il rischio c’è. Anche se per mesi il tira e molla non ha riscosso più l’interesse mediatico degli inizi, ultimamente il vento delle armi ha preso a soffiare così forte da destare l’attenzione di un’agenda giornalistica molto più attenta alle felpe di Salvini, alle piroette di Renzi e Berlusconi che all’incontro di Minsk.

Tensione sempre più alta. Dopo il controverso referendum e l’annessione della Crimea, la Russia – nonostante le sanzioni – non ha minimamente mutato il proprio comportamento, continuando a infiltrare i suoi uomini e a combattere nascostamente Kiev. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti si fanno sempre più duri e minacciosi, promettono di dotare l’Ucraina di “armi letali” e da un po’ hanno intensificato le esercitazioni negli Stati baltici ai confini con Mosca. La Nato si prepara a trasportare più uomini e mezzi nella zona calda. Indiscrezioni e ricostruzioni giungono da ogni dove e parlano della volontà americana di generare uno scontro che avrebbe come campo di battaglia l’Europa.

La Ue vuole mediare. La Merkel e Hollande – ma la Mogherini !? – tentano una mediazione che non si capisce bene come stia andando e se possa sortire davvero l’effetto sperato. E se da una parte Obama non sembra intenzionato a tirarsi indietro, dall’altra Putin ribatte che nessuno può permettersi di usare certi toni con la Russia. Mosca non accetta ultimatum e se gli americani appoggiassero militarmente Kiev l’escalation raggiungerebbe un picco di non ritorno.

In mezzo ci siamo noi, noi Europa, noi Italia. Gli unici che, finora, hanno davvero sofferto le sanzioni, rimettendoci decine di miliardi di esportazioni che avrebbero fatto molto comodo alle nostre economie in crisi. Le punizioni non sono servite a nulla. E la guerra da fredda si è fatta gelida. Quello che si gioca sulla nostra testa e domani, forse, speriamo di no, anche sulla nostra pelle, è molto di più di un semplice tatticismo sullo scacchiere geopolitico.

Usa-Urss: non è stata una vittoria americana. In quel meta discorso che sottende ogni conflitto potenzialmente di rilevanza planetaria, la Russia sembra voler ribadire a tutti una cosa: la contrapposizione in blocchi che ha guidato il mondo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla caduta del muro di Berlino, non si è conclusa con una sconfitta del Cremlino. Semmai, la distensione è stata il frutto di un mutamento storico e socioeconomico più simile a una decisione condivisa, che ad una vittoria statunitense. E quindi, se gli americani danno per scontato che i rapporti di forza siano ormai sbilanciati a loro favore, si sbagliano e di grosso. Per altro, gli Stati Uniti si comportano in modo affrettato, con un attivismo preoccupante, indice apparente di una malcelata smania di mostrare i muscoli e di arrivare improvvisamente a fare i conti con gli odiati rivali.

Uno sfoggio di muscoli a stelle e strisce? Nell’impostazione di un presidente (addirittura) “premio Nobel per la pace”, c’è qualcosa che non torna del tutto. Non si comprende questa velocizzazione impressa da Obama alla crisi ucraina. Un decisionismo minaccioso che fa pensare al reaganismo anni ’80. Sembrerebbe quasi che, giunto all’ultimo tratto della sua duplice presidenza, Obama voglia ribaltare le critiche di chi lo ha bollato di indecisione, dando l’immagine del presidente che non ha paura di nessuno. Un classico cliché americano. Forse un lascito per il prossimo candidato democratico, o un’occhiolino alla potente lobby delle armi.

Nella migliore delle ipotesi, il disegno potrebbe tendere a una manovra su larga scala per far intendere a terzi, ovvero, alla Cina, chi ancora comanda. Ma, fosse anche un messaggio indiretto all’immenso colosso che in silenzio osserva attentamente i movimenti, si tratterebbe comunque di una manovra pericolosissima. In un testa a testa, dopo che le parole sono diventate minacce, se nessuno dei contendenti molla, c’è solo lo scontro. Si tratterebbe di un disastro annunciato. Un disastro lontano dai confini americani, ma che nessuno sa dove potrebbe portare qualora deflagrasse definitivamente in un conflitto a volto scoperto.E non, come ora, combattuto quasi in segreto.

La grande Russia e il nemico di sempre. Il dittatore Putin ha senz’altro una marea di problemi interni. Ora, però, ha anche una splendida giustificazione per le sue difficoltà economiche: il vecchio nemico, gli Usa. La minaccia americana compatta il consenso verso lo “zar” di Mosca, che dalla sua, oltre ad un apparato propagandistico fortissimo, ha anche un efficacissimo e neanche troppo nascosto sistema repressivo. C’è da preoccuparsi. E tanto. Soprattutto perché si stanno gettando le basi per lo scontro. È già in atto, ad esempio, la gara ad intestarsi la ragione. Che non è mai un buon segnale. I passaporti russi rinvenuti sui corpi dei separatisti uccisi sono la prova di come Mosca stia mentendo sapendo di mentire e di un suo coinvolgimento attivo negli scontri.

Putin non può piegarsi. Ma le esercitazioni, i caccia della Nato che lambiscono i confini russi, le sanzioni e gli avvertimenti fatti di termini sempre più violenti, sono considerati dalla Russia come un’inaccettabile intromissione da parte americana. Un’intromissione legittimata solo e soltanto dall’attribuzione autoreferenziale ed unilaterale del ruolo di polizia mondiale. Un potere a cui Putin non piegherà mai la testa.

Del resto, da quando è apparso sulla scena, tutta la politica l’ex colonnello dell’ultimo Kgb ha mirato a questo: recuperare quella forza, quella credibilità e quel rispetto che, dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica in poi, sembrava essere irrimediabilmente perduto. Nonostante il temibile arsenale missilistico fosse ancora tutto lì. Adesso, la politica dello “zar” sembra essere giunta alla prova del nove. E a far crescere la tentazione di rischiarla sono anche le mosse americane.

L’interventismo americano. Lo stop ad iniziative volte a rovesciare il regime siriano di Bashar al-Assad, infatti, è stata la vittoria dell’orgoglio russo risvegliatosi da un lungo sonno. La crisi che ha salvato “il macellaio di Damasco” è stato uno scatto importante nei rapporti di forza. Agli occhi di Mosca, il ruolo giocato dagli States negli ultimi 25 anni – cioè a partire dalla Guerra del Golfo, passando per l’11 settembre con quello che ha portato, al caos delle rivoluzioni arabe, per finire con l’inquietante velocità con cui è sorto e si è affermato il califfato del terrore dell’Isis – è stato contrassegnato dall’attivismo frenetico di chi si arroga il potere esclusivo di far ciò che desidera, destabilizzando il mondo per trarne enormi vantaggi e riaffermare la propria potenza sovranazionale.

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