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Diritto di critica | April 27, 2024

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Balcani senza pace, la Bosnia in bilico - Diritto di critica

Balcani senza pace, la Bosnia in bilico

di Federica Spurio Pompili

In Bosnia-Erzegovina arde ancora una piccola fiammella. Continua a soffiare un vento che la mantiene sempre accesa sotto le macerie di quella che è stata una delle più grandi tragedie europee del secolo scorso. Un vento di crisi e di destabilizzazione, sempre pronto ad innescare un ingranaggio contorto e tortuoso capace, però, di azionare in un lampo macchine da guerra fratricide.

La Bosnia oggi. Tragico teatro, durante la guerra del 1992-1995, di tutti quegli orrori legati alla etničko čišćenje (pulizia etnica) messa in atto dai serbo-bosniaci di Radovan Karadžić e Ratko Mladić ai danni della popolazione musulmana, la Bosnia-Erzegovina, in base agli accordi di Dayton siglati a Parigi il 14 dicembre 1995, è oggi uno Stato federale. Il suo territorio è suddiviso tra la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Srpska (l’entità serba) che vede la convivenza, sempre difficoltosa, di tre etnie principali: bosniaca (di credo musulmano), serba (di fede ortodossa) e croata (di confessione principalmente cattolica).

Nuovi e vecchi contrasti. La situazione politica dipinge un quadro di estrema fragilità sotto molteplici punti di vista: il Paese è senza governo dalle elezioni del 2010, problema di notevole importanza che va ad aggiungersi alla contestazione della formazione del governo della Federazione croato-musulmana da parte dei partiti HDZ e HDZ 1990 (di composizione/rappresentanza serbo-croata). In tutto questo la costruzione di una chiesa ortodossa a Potočari, sullo stesso luogo dove sorge il monumento in ricordo al tragico ed doloroso (ed ancora impunito) genocidio di Srebrenica certamente non aiuta la crescita di un sentimento di tolleranza e cooperazione.

La fragile Bosnia in bilico. Agli inizi di maggio Valentin Inzko, Alto rappresentante Internazionale per la Bosnia-Erzegovina, ha pubblicamente annunciato l’intenzione di annullare la pericolosa decisione del Parlamento della Repubblica Srpska di indire un referendum che mettesse in discussione la giurisdizione della Corte e della Procura di Stato, gli unici due organi di giurisdizione centrale, istituiti nel 2003 e competenti per ciò che concerne esclusivamente i crimini di guerra non trattati dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY). Il referendum in questione sarebbe dovuto essere indetto entro giugno e di per sé costituiva allo stesso tempo una minaccia per il mantenimento della precaria struttura istituzionale creata da Dayton nonché un vero e proprio attacco all’autorità internazionale in Bosnia.

L’Unione europea per un nuovo equilibrio. Per correre in aiuto delle Nazioni Unite, e per cercare di avere un ruolo chiave nella questione, l’Unione Europea ha immediatamente inviato a Banja Luka Catherine Ashton, Alto rappresentante per la Politica estera dell’UE, che il 13 maggio ha incontrato Milorad Dodik, il presidente serbo-bosniaco. In sede di conferenza stampa, Dodik ha affermato che lo spettro del referendum è stato scacciato, in nome del concreto impegno, assicurato dalla Ashton, in merito all’avvio di una riforma della giustizia centrale bosniaca, tenendo in considerazione le rivendicazioni da parte delle autorità serbe: il voto a favore del referendum, infatti, era stato espresso soprattutto come contestazione nei confronti della Corte Penale federale del Paese, rea di penalizzare la Repubblica Sprska occupandosi quasi in maniera esclusiva dei crimini di guerra compiuti dai serbi.

L’Europa e l’Onu troppo distratti. Crisi rientrata,quindi. O almeno, a quel che formalmente ci è dato vedere. Analizzando più a fondo la situazione, però, possono essere fatte numerose osservazioni. La minaccia e il baratto sono strumenti particolarmente cari alle forze nazionaliste (nella maggior parte dei casi di origine serba) il cui unico scopo è la costante destabilizzazione di un ordine nazionale già estremamente precario e fragile: è un film già visto più volte in questi 16 anni, e a quanto pare né gli Usa, né la Ue e neppure la stessa Onu hanno finora dimostrato il sufficiente impegno per far rispettare l’ordine e far attecchire il seme della democrazia in Bosnia. Tra tutti, L’Unione Europea è senza dubbio quella che dovrebbe prendere in mano la situazione con maggiore risolutezza, per garantire il necessario ordine interno ad uno Stato che aspira a diventarne membro.

Realizzare la Bosnia attraverso una “responsabilità condivisa”. Wolfgang Petritsch, l’ex Alto rappresentante in Bosnia-Erzegovina dal 1999 al 2002, e Christophe Solioz, segretario generale del Centro per le Strategie di Integrazione Europea (CEIS) a Ginevra, sono di un parere comune: “Tra i sostenitori dell’interventismo, che pensano che solo l’azione della comunità internazionale possa impedire l’implosione della Bosnia, e quelli che, al contrario, ritengono che i bosniaci soli sono responsabili del loro futuro, noi siamo per una via intermedia: quella di una responsabilità condivisa, di un partenariato esigente che superi gli errori del passato per mettere il Paese nell’orbita di Bruxelles”.

Belgrado, tra nazionalisti e voglia di Europa. Purtroppo gli avvenimenti degli ultimi giorni non fanno altro che andare contro i buoni propositi degli europeisti: se per alcuni la cattura (o “consegna”?) dopo 16 anni di latitanza di Ratko Mladić riapre dolorose ferite legate al luglio del ‘95 ma allo stesso tempo grandi speranze per un cammino verso la giustizia, per altri costituisce nuovo vento su quella fiammella di odio mai del tutto spenta. Le immagini di migliaia di sostenitori del “macellaio” di Srebrenica che sfilano davanti la bella San Marco di Belgrado inneggiando al suo nome cozzano con i buoni propositi del premier Tadic, che per la Serbia sogna a breve un ruolo da protagonista nella costellazione europea, e certamente alimentano le spinte nazionaliste dei serbo bosniaci. Allo stesso tempo dobbiamo ricordare che il termine del mandato del Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia scade nel 2014 e pochi tra i membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu appaiono realmente intenzionati a prolungarne i tempi di lavoro: a conti fatti restano due anni e mezzo per giudicare le due menti principali della mattanza balcanica degli anni novanta.

Instabilità nell’instabilità. L’Europa e l’intera comunità internazionale hanno già rivestito il ruolo di semplici spettatori in passato e di sicuro non possono permettersi di replicare: la Storia non sarebbe clemente, non per una seconda volta.