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Diritto di critica | April 26, 2024

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Violenza domestica, «ogni volta uguale: prima le botte, poi gli abusi» - Diritto di critica

Violenza domestica, «ogni volta uguale: prima le botte, poi gli abusi»

Mentre Paola parla, la sua voce trema: talvolta si incrina, pare sul punto di spezzarsi  e lei deve fare una pausa prima di riprendere a raccontare, dopo aver allungato la mano a stringere quella del compagno Carlo, che per tutto il tempo le resta seduto accanto e la sostiene quando sembra volersi interrompere. Ma non smette: lo sguardo diretto, la voce di nuovo ferma. Ha chiesto lei di poter raccontare a Diritto di Critica la sua storia, «perché parlarne mi fa stare meglio e perché non sono l’unica, molte altre donne si trovano nella mia stessa condizione». La condizione di vittime nella propria stessa casa. Vittime del proprio partner, della persona dalla quale si aspettavano amore e che invece ha dato loro solo violenza, umiliazione, botte.

Paola, 33 anni, non chiama mai per nome l’uomo che le ha fatto male. «Il mio aguzzino»: così definisce quell’uomo che sembrava una promessa ed invece si è rivelato un inferno.  Quell’uomo più vecchio di lei di 19 anni, conosciuto quando lei di anni ne aveva solo 20 e dall’entroterra sardo se ne era andata in Trentino per lavorare, lontana da una madre spesso troppo ossessiva e un padre succube e spesso assente. «I miei si erano appena separati e io volevo cambiare aria, dare una svolta. Così sono andata via ed ho trovato lavoro stagionale come lavapiatti in un rifugio, in un piccolo paese del Trentino. E’ lì che l’ho conosciuto». Dopo la stagione invernale ed un lavoro abbandonato a causa delle avances del titolare, Paola rientra a casa per un breve periodo, prima di decidere di tornare in Trentino. Da lui, da quello che sarebbe diventato il suo aguzzino. «I miei genitori – racconta Paola, con lo sguardo che vaga qua e là per la stanza – non erano d’accordo, ma mi hanno lasciata fare. E’ stata la prima decisione che mi hanno permesso di prendere liberamente e l’unica per cui rimpiango che non si siano imposti».

Dopo pochi giorni di convivenza, per Paola è iniziato l’inferno. Un piatto sporco, una camicia non stirata a dovere, una risposta seccata: ogni motivo, anche il più futile, era valido perché cominciasse la tortura.  «Lui beveva, era un alcolizzato. – si ferma un attimo – Mi ha violentata. E poi botte, botte per ogni piccolezza, per ogni errore. Ogni volta era uguale: prima le botte, poi la violenza. Mi lavavo un sacco di volte al giorno, perché mi sentivo sporca. Ma usavo i guanti, quelli da cucina, per non sentire il contatto con la mia pelle». Ha tentato anche di andarsene, di fuggire dall’incubo, ma ogni volta lui è riuscito a fermarla: «non mi lasciava neanche prendere l’autobus per andare e tornare dal lavoro, perché era disdicevole che mi vedessero altri uomini. Aveva assoldato una sua persona di fiducia che mi facesse da scorta». Paola non ha mai parlato a nessuno di ciò che le succedeva, non ha mai denunciato né chiesto aiuto per la sua situazione: «sono una persona insicura e non volevo creare problemi. Mi dicevo che i propri “panni sporchi” vanno lavati in casa, non all’esterno. E mi portavo tutto dentro».

Fino a quando, però, Paola non ha scoperto che gli abusi continui e ripetuti del compagno avevano avuto un altro effetto: aspettava un bambino. «Avevo accettato mia figlia Giulia come un dono, anche se nata da uno stupro. Ma io mia figlia non l’ho mai vista, non so che ne è stato di lei. Non ne ho saputo più nulla». Giunta al nono mese di gravidanza, Paola si è recata da sola in ospedale, dove l’hanno messa sotto osservazione per via dei numerosi lividi e le hanno indotto il parto. Subito dopo è stata sedata: quando è ritornata in sé, Giulia non c’era più. Erano sparite anche tutte le cartelle cliniche della ragazza e il compagno l’ha fatta uscire dall’ospedale di nascosto, da una porta di servizio. «Le mie denunce – continua Paola, con la voce rotta – sono cadute nel vuoto. Il medico diceva di non sapere nulla. Ho persino chiesto aiuto ad una ginecologa: pensavo sarebbe stata dalla mia parte, perché era una donna come me. Invece non è stato così». Il peggio, però, è stato poi affrontare le dicerie e le voci nel piccolo paese di montagna dove lei e il compagno vivevano: «nessuno mi ha chiesto che fosse successo. Sono stata accusata di essere falsa, pazza, di aver fatto del male a mia figlia. In fondo il mio aguzzino era un uomo della comunità: probabilmente aveva pagato perché l’intera faccenda fosse messa sotto silenzio. E a chi sostiene che l’omertà esiste solo al Sud, io rispondo che non è assolutamente così».

Dopo questo episodio, Paola ha trovato il coraggio di andarsene. Quando è tornata dalla famiglia, pesava 37 chilogrammi, era coperta di lividi ed aveva a malapena le forze per muoversi: «lasciarsi alle spalle certi episodi non è facile. O forse è proprio impossibile». Gli ultimi dieci anni hanno rappresentato per Paola un lungo e difficile cammino di emancipazione da quegli anni di sofferenza: un cammino segnato da psicofarmaci, depressione, un tentativo di suicidio e dall’aiuto costante del fratello e della migliore amica, che le hanno permesso, lentamente, di alzare di nuovo la testa e guardare con fiducia il futuro. Da otto mesi, Paola sta con Carlo e la sua vicinanza mentre lei racconta la sua storia testimonia il prezioso legame che si è creato tra i due.  «Lui è il lieto fine della mia vicenda: mi ama così come sono e mi ha insegnato di nuovo ad amare. Certe volte però – ammette Paola – il passato ritorna. Se mi succede di sbagliare qualcosa, ad esempio a dosare il sugo sulla pasta o piccolezze simili, vengo presa da un senso di terrore. Anche se so benissimo che Carlo non alzerebbe mai un dito su di me. Ma certi incubi non si dimenticano tanto facilmente».


[1] I nomi di persona utilizzati nell’articolo sono, su richiesta dei diretti interessati,  di fantasia