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Diritto di critica | April 26, 2024

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Pantani, quel "te l'avevo detto" che non ci consola - Diritto di critica

Anzi, fa ancora più male. Soprattutto a chi al Pirata ha sempre creduto, e ha perso forse del tutto la speranza di ottenere una giustizia reale

Possono un’intercettazione ambientale ed alcuni elementi investigativi (purtroppo non supportati da prove certe) sopire in qualche misura il bruciore di una ferita che moltissimi italiani hanno lì, piuttosto vicino al cuore? C’è una percentuale di sollievo nel sapere che sì, ora lo affermano anche gli investigatori, Marco Pantani è stato fermato al Giro d’Italia del ’99 sulla base di analisi contraffatte, che indicavano un livello di ematocrito superiore al limite consentito? La risposta è affermativa, ma è labilissima, e lascia quasi subito spazio alla rabbia e alla sensazione di impotenza.

Non parliamo di dolore, non ne abbiamo il diritto: quello ha pulsato e pulserà sempre nelle vene di chi amava Marco e non lo avrà più indietro. Ma di amarezza e inquietudine sicuramente si tratta: amarezza, per tutte le volte che chi ha sempre creduto nella buona fede del Pirata si è scontrato con il massacro mediatico, l’ignoranza, con chi liquidava un uomo con l’appellativo di “drogato”, senza riflettere o fermarsi per cercare di capire, per esempio perché i valori delle analisi immediatamente precedenti e successivi a quelli della mattina del 5 giugno erano normali. E perché quel gioco di provette che stranamente proprio quel giorno non sono state distribuite con il solito criterio di progressione numerica? Perché i medici che erano nella stanza hanno mentito sulla presenza di una quarta persona (lo hanno accertato gli inquirenti), il commissario Uci Wim Jeremiasse poi scomparso otto mesi dopo con la macchina in un lago ghiacciato?

Chi scrive ha combattuto verbalmente per anni con i faciloni di turno, seduti in una pizzeria o sui mezzi pubblici a sparare sentenze a caso, solo per il gusto di andare contro corrente. L’inquietudine arriva e sale nell’apprendere che dietro a quei medici corrotti c’era qualcosa di enorme: la camorra, e il suo giro d’affari miliardario con le scommesse sportive. Lo diceva da tempo il pregiudicato Renato Vallanzasca, che in carcere aveva ricevuto “consigli” di gioco e previsioni di disfatta organizzata ai danni del «pelatino, che a Milano non so come ma non ci arriva, fidati», e lo ha ribadito un altro pesce piccolo vicino alle cosche, a colloquio con la figlia. I Carabinieri e il pm di Forlì, Sergio Sottani, hanno stilato un dossier di 30 pagine che conferma quel che Pantani disperatamente diceva nel 1999: qualcuno lo ha fregato. Perché era il più forte. Perché scommettere contro di lui, sicuro vincente a poche tappe da Milano, avrebbe significato fare una montagna di soldi. Maledetti soldi. Poco importava distruggere il sogno di un ragazzo e la sua vita, che da quel momento sarebbe cambiata per sempre. Ma se da un male come la camorra non ci si aspetta niente, è il mondo del ciclismo e i suoi vertici che hanno un debito e un fardello da portare ancora più grande, perché Pantani è stato abbandonato proprio da chi, grazie a lui, ha guadagnato dalla rinascita di questo sport: tra il 1998 e il 1999 (io avevo 17 anni e assieme alla mia amica non ci perdevamo una gara) praticamente tutta l’Italia amava e seguiva le imprese di quel fortissimo e fragile campione, che le era entrato nel cuore e non ne è più uscito. Quanto vorremmo dirgli di persona che aveva ragione.

Il tempo passa impietoso e questo spiraglio di verità arriva troppo tardi: i reati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva sono caduti in prescrizione. È la barzelletta della giustizia. La Dda (Direzione distrettuale antimafia) di Bologna, assieme al deputato del Pd Tiziano Arlotti, chiederanno alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie (presieduta da Rosy Bindi) di riesaminare e considerare il caso. Un filo sottile per non gettare tutto nell’oblio.

La madre di Marco, quella signora Tonina che lotta da sempre (e continuerà a farlo) contro i mulini a vento per avere giustizia, parla di dignità restituita al figlio, magro palliativo di un dolore che non avrà mai fine. Noi no. Perché la dignità agli occhi di milioni di italiani il Pirata non l’ha mai persa, ma la giustizia sì, quella non si potrà più avere completamente.