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Diritto di critica | April 25, 2024

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Tutte le Sakineh del mondo islamico - Diritto di critica

di Erica Balduzzi ed Emilio Fabio Torsello

Sakineh Mohammadi Ashtiani non sarà lapidata. Almeno per ora. La notizia è stata comunicata ieri dal portavoce del ministero degli Esteri iraniano che ha assicurato: “Il verdetto riguardo la vicenda di tradimento extraconiugale è stato bloccato e sottoposto a revisione”. L’annuncio è arrivato a poche ore dall’approvazione di una risoluzione dell’Europarlamento: la risoluzione “condanna fortemente la sentenza di morte per lapidazione di Sanikeh e ribadisce che, indipendentemente dai fatti, una condanna a morte per lapidazione non può mai essere accettata o giustificata”. L’Europa ha chiesto quindi “una revisione del caso”.

Stesso discorso per gli altri prigionieri rinchiusi nelle carceri iraniane, tra questi la cittadina con doppia nazionalità, olandese e iraniana, Zahara Bahrami, imprigionata in dicembre con l’accusa di aver agito contro la sicurezza nazionale e il 18enne Ebrahim Hamidi, accusato di sodomia. Per la Bahrami gli europarlamentari hanno anche fatto appello all’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune europea, Catherine Ashton, affinché sollevi il caso presso le autorità iraniane.

Dall’Africa all’Asia,una pratica diffusa
L’Iran non è però l’unico Stato nel mondo a prevedere la lapidazione. Secondo Amnesty International questa condanna è prevista anche in Paesi quali l’Arabia Saudita, il Pakistan, il Sudan, la Nigeria, la Libia e la provincia di Aceh in Indonesia, dove è stata reintrodotta lo scorso anno. Sono inoltre giunte notizie di singole esecuzioni per lapidazione dall’Afghanistan e dalla Somalia.

“In paesi con governi centrali deboli – spiega Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty – esistono sistemi di giustizia informali o secondari, consigli tribali che puniscono presunti reati di adulterio con la lapidazione, al di fuori di qualunque procedura giudiziaria”. E Paolo Branca, docente docente di Lingua e Letteratura araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, sottolinea come la pratica della lapidazione dipenda anche “dal regime e dall’uso propagandistico che viene fatto della religione”. “La stessa schiavitù – prosegue Branca – è prevista dal Corano, come del resto dalla Bibbia, perché era una condizione normale nell’antichità ma oggi nessuno la mette in pratica e per fortuna ci sono moltissimi Paesi in cui la pena della lapidazione non viene più comminata da tempo”. Tra questi, l’Egitto e la Libia.

La questione però, non è solo “di regime”. “Si parla di Sharia e di legge islamica – sottolinea Branca – ma una codificazione universale di tale legge non esiste. Nel Corano non c’è alcun versetto sulla lapidazione, intesa come punizione per l’adulterio o la fornicazione, si parla semmai di fustigazione. Ad introdurre la lapidazione è stato il secondo califfo Umar”. Nel mondo islamico, spiega Roberta Aluffi, docente di Sistemi giuridici comparati presso università di Torino, “c’è stata una forte reislamizzazione negli anni 70 che ha coinvolto anche la vita quotidiana delle persone, attraverso una riemersione di simboli islamici come il velo per le donne. L’impressione, comunque, è che questo processo vada attenuandosi e, almeno a livello ufficiale, non ha coinvolto in modo uguale tutti i Paesi musulmani”.

Il ritorno al futuro integralista
L’ultima lapidazione di cui è giunta notizia, riferisce Amnesty, è avvenuta in Afghanistan nell’agosto scorso – la prima dalla caduta del mullah Omar nel 2001 – e ha coinvolto una coppia uccisa a colpi di pietra da un gruppo locale di talebani. “In Afghanistan – spiega Aluffi – esiste un diritto dello Stato ma ha un’applicazione minima. L’Italia ha contribuito a redigere il codice di Procedura penale afghano che appositamente non prevede norme sulla pena capitale. Questo diritto, però, fa fatica ad essere applicato nell’insieme del territorio”.

C’è poi tutta la questione dell’arbitrarietà dovuta alle contaminazioni da parte delle tradizioni locali. In Paesi come la Somalia o in alcune zone dell’India, infatti, la punizione della donna viene spesso affidata a consigli tribali che comminano pene capitali in modo del tutto arbitrario, in molti casi senza tener conto della legge coranica. “I delitti d’onore – aggiunge Noury – fanno decine di vittime ogni anno: alle donne viene dato fuoco, le si istiga al suicidio o le si uccide a colpi di pietra”. Ed è stato il caso di una bambina somala di appena tredici anni, Aisha Ibrahim Duhulow, uccisa a sassate da cinquanta uomini dopo aver subito uno stupro nel 2008. Dopo aver denunciato la violenza alla locale milizia, è stata giudicata colpevole di adulterio da una corte islamica e lapidata in uno stadio, davanti a un migliaio di spettatori.

Pubblicato sul Fatto quotidiano il 9 settembre 2010