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Diritto di critica | March 29, 2024

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Ma a L'Aquila il processo da celebrare è un altro

In Italia c’è una giustizia che fa gridare allo scandalo: quella che assolve quando l’opinione pubblica ha già condannato. Lo si è visto nel caso di Stefano Cucchi – per cui Massimo Gramellini ha scritto e letto una lettera molto toccante – accade oggi con le assoluzione dei componenti della Commissione Grandi Rischi, per il terremoto dell’Aquila.

Eppure, invece di urlare “Vergogna!” contro una sentenza di assoluzione “per insufficienza di prove” (vedi il caso Cucchi) o perché “le accuse non erano state dimostrate” (processo Grandi Rischi), bisognerebbe interrogarsi sull’efficacia delle indagini e delle prove portate davanti ai giudici i quali, a dispetto delle condanne già emesse dall’opinione pubblica, fanno una valutazione degli elementi probatori. E sarebbe orribile uno Stato in cui si cercasse il capro espiatorio di turno pur di chiudere un’indagine, si seguisse il sentire generale senza valutare le prove, si dimenticasse quel diritto alla legittima difesa che è tanta parte della nostra democrazia.

Detto questo, all’Aquila c’è un processo che nessuno ha ancora mai intentato. E non è alla Commissione Grandi Rischi ma a ben altri attori che andrebbero uno dopo l’altro individuati e portati sul banco degli imputati: coloro i quali permisero – coprendosi occhi e turandosi orecchie e bocca – che la città arrivasse così impreparata e disarmata a un terremoto come quello del 6 aprile, in una zona ad alta sismiscità come quella regione dell’Abruzzo. Basti pensare – pare un paradosso ma è tutto vero – che la prima brochure per la popolazione sul rischio sismico è arrivata tre anni dopo il terremoto.

E in occasione della sentenza di primo grado, venne sollevata anche un’obiezione che chi oggi urla “Vergogna” non può ignorare: “Quale scienziato vorrà esprimere la propria opinione sapendo di poter finire in carcere?”, si leggeva nel comunicato stampa diffuso dall’Istituto di geofisica e vulcanologia. “La sentenza di condanna di L’Aquila rischia, infatti, di compromettere il diritto/dovere degli scienziati di partecipare al dialogo pubblico tramite la comunicazione dei risultati delle proprie ricerche al di fuori delle sedi scientifiche, nel timore di subire una condanna penale. Condannare la scienza significa lasciare il campo libero a predicatori che millantano di sapere prevedere i terremoti, rinunciando di fatto al contributo di autorevoli scienziati”.

Il vero processo, dunque, è un altro e deve essere ancora celebrato. Le indagini dovrebbero ricomprendere tutte le autorizzazioni – date o mancate negli anni e nei decenni precedenti, da parte dei diversi uffici competenti – che hanno permesso alla città di sgretolarsi sotto l’effetto del terremoto del 6 aprile 2009. Se le case, gli edifici e le infrastrutture aquilane avessero retto e fossero state a norma, infatti, non ci sarebbero state le 309 vittime che hanno segnato in modo indelebile la città e il Paese. Ma un processo così, per ora, sembra ben lontano dall’essere celebrato.

@emilioftorsello

Comments

  1. L’assoluzione non è stata modivata dal fatto che “le accuse non erano state dimostrate” (insufficienza di prove) ma dall’insussistenza del fatto, cioè perché i fatti contestati non integrano una fattispecie di reato. Non è una piccola differenza.