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Diritto di critica | July 24, 2024

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Piazzapulita e il giornalismo che manca

La puntata di Piazzapulita sulla “Fortezza Europa” andata in onda (in replica) ieri ha mostrato a chiare lettere il giornalismo che manca nel nostro Paese. Un’intera trasmissione costruita su reportage, testimonianze e immagini che hanno fatto parlare gli italiani, i migranti, i rifugiati, le persone in fuga dalla guerra. Con un coraggioso Formigli che ha lasciato il “salotto buono” dei talk per andare a ficcarsi nel centro di Kobane e mostrare – insieme al suo operatore – la realtà di quanti cercano di resistere all’avanzata dell’Isis. Formigli ha acceso la camera anche sull’unico punto ancora vivo della città: il panificio. E proprio i forni in Siria sono stati spesso bersaglio di raid aerei e attentati, per il loro alto valore simbolico e ultima fonte di sussistenza per la popolazione.

Ma la trasmissione di Formigli non si è limitata a questo. L’obiettivo era mostrare a quanti da sempre affrontano il problema dell’immigrazione con un generico “rimandiamoli a casa” o “aiutiamoli a casa loro”, la realtà dei Paesi da cui i migranti fuggono. Ed è così che in un’Italia dove per lo più l’informazione è seduta al desk, con la fregola del copia-incolla compulsivo dalle agenzie nostrane e straniere, i giornalisti di Piazzapulita – Francesca Mannocchi, Valentina Petrini, Francesca Nava -hanno lasciato le loro scrivanie e sono andati ai quattro angoli dell’Europa, per raccontare il viaggio dei migranti. Spagna, Libia, Francia ma anche i ghetti italiani – le tante Rosarno che politica e istituzioni fingono di non vedere, dove vivono abbandonati al degrado e ai caporali, migliaia di rifugiati con regolare permesso di soggiorno.

Quella andata in onda ieri è stata una puntata che ha segnato la differenza rispetto al modus operandi tipico della nostra informazione, per lo più fatta ormai da titolazzi come “Ecco cosa è davvero successo” oppure da grigi resoconti di notizie ormai fritte e “sedute”.

Raccontare le realtà dei migranti, entrare nei centri di detenzione in Libia, riprendere gli “assalti” alla frontiera spagnola, lasciar parlare i volti, le ferite, le catene, farsi “svelare” il ricatto dei Paesi africani che “dosano” il flusso dei migranti in entrata sulle frontiere in base a quanti fondi vengono inviati loro ogni anno dai governi europei, è giornalismo. Alzarsi dalla sedia del desk per rendere testimonianza, per condividere l’ansia di un viaggio verso il nord Europa con una famiglia di rifugiati, smentire le dicerie e i pregiudizi di certa politica facilona e di cittadini disinformati, è giornalismo. E non è vero – semmai è una scusa – che questo tipo di trasmissioni non fanno audience perché il pubblico “non le vuole”, come dicono alcuni. Semmai la realtà è un’altra: il grande pubblico oggi non è più in grado di ascoltare e seguire trasmissioni del genere perché per anni è stato abituato ad altro, a un’informazione superficiale, occasionale, sensazionalistica. Se invece di mettere in onda tanti talk di politica si parlasse di più della realtà, spostando microfoni e telecamere altrove, lontano dai salotti e dai palazzi – proprio come ha fatto ieri Piazzapulita – allora anche il pubblico si renderebbe conto di ciò che conta. E i politici – si spera – seguirebbero.

@emilioftorsello

Comments

  1. Roberta Strani

    I Reportage di Formigli, vedi Kobane per tutti, dimostrano che può ancora esistere il giornalismo sul campo, dove coraggio, intelligenza e determinazione sono elementi essenziali. Parlare della guerra dirigendosi direttamente sul posto, parlare e documentare con immagini, intervistare le persone che stanno combattendo e mescolarsi con loro, condividendone i pericoli, filmare questi momenti, mandarli in onda e poi discuterne in trasmissione, questo è il più puro giornalismo. E bene ha fatto l’autore dell’articolo a metterlo in risalto, a parlarne. Mi viene in mente una scena, tratta mi pare dal film ‘Il muro di gomma’, dove il protagonista parla del giornalista-giornalista, che si differenzia per il suo impegno e lo spirito di inchiesta, dal giornalista ‘semplice’ che ha fatto della sua professione un mestiere, e nessuna passione.