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Diritto di critica | December 6, 2024

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La partita del prezzo del petrolio, dietro le quinte del non-accordo sulla produzione

Russia, Iran, Iraq e Arabia Saudita ancora su posizioni distanti. Ciascuno punta a mantenere output e quote di mercato

Dell’andamento del mercato del petrolio al cittadino arriva normalmente l’effetto sul prezzo delle benzine al distributore. E se negli anni scorsi l’Italia – ma non solo – ha conosciuto picchi in cui un litro di benzina sfiorava i due euro al litro – tanto che alcuni esperti l’avevano definita la “soglia psicologica” – oggi la situazione è drasticamente cambiata. Lo stesso litro di carburante, infatti, è arrivato a costare anche 1,3 euro a litro (accise comprese), per effetto del prezzo ormai in caduta libera. A concorrere a questo stallo che sta facendo risparmiare gli utenti ma impoverendo gli Stati produttori di petrolio e le compagnie, è stata da un lato la saturazione delle scorte di greggio di alcuni grandi Paesi, dall’altro la produzione che nei mesi ha toccato livelli tali da indebolire i prezzi, a fronte di una domanda comunque limitata. Senza dimenticare il ritorno sul mercato di un player di tutto rispetto come l’Iran.

La questione iraniana

Se nel mondo si registra infatti un surplus di produzione e si stanno cercando nuove strategie per tenere il prezzo del barile attorno ai 50 dollari, già dal meeting OPEC di Doha dell’aprile scorso Teheran ha fatto sapere di non voler limitare la propria produzione di petrolio e di voler anzi far salire l’output a oltre 5 milioni di barili al giorno, raggiungendo e superando la soglia dei 4 milioni di barili di petrolio estratti ogni giorno, che riporterebbe l’Iran ai livelli di mercato precedenti alle sanzioni internazionali.

Sul fronte opposto l’Arabia Saudita: favorevole (adesso) a limitare la produzione di greggio e le esportazioni, a patto che anche l’Iran intraprenda la stessa strada. Proprio Riad, inoltre, in questi mesi sta patendo pesanti deficit di bilancio causati dalle mancate revenues delle vendite del greggio, situazione che ha portato a tagli negli stipendi e nei bonus del comparto pubblico saudita e a una corsa alla diversificazione energetica, per non dipendere nei prossimi anni solo  ed esclusivamente dai combustibili tradizionali. Un indirizzo in questo senso, per l’Arabia Saudita – l’ha dato anche il piano Vision 2030, con un crono-programma che nei prossimi anni dovrebbe portare il maggior esportatore mondiale di greggio a puntare anche su altre fonti di energia.

E se il punto di non ritorno è fissato per il 30 novembre prossimo, quando in convocazione ufficiale nella sede di Vienna l’OPEC cercherà di trovare la quadra sul “freezing” della produzione di greggio, una serie di meeting in questi mesi sta cercando di preparare la strada a un eventuale accordo (il prossimo sarà il 28 ottobre a Vienna).

Come dire: “è giusto limitare la produzione, ma inizia prima tu…”

L’ultima in ordine di tempo è stata la riunione informale di Algeri – in occasione del Forum internazionale sull’energia – dove Paesi OPEC e non-OPEC hanno deciso di limitare la produzione globale di almeno un milione di barili di petrolio in meno al giorno. I mercati hanno reagito positivamente all’annuncio, facendo salire il prezzo del barile e molti hanno celebrato l’accordo in pompa magna. Già, peccato che – al di là dell’accordo sbandierato – manchi il dettaglio sul congelamento della produzione, Paese per Paese. Come dire: tutti sono d’accordo sul taglio alle esportazioni e alle estrazioni, ma purché lo facciano gli altri. E le contraddizioni in questo senso sono emerse numerose, anche in seno agli stessi Paesi. Il presidente russo Vladimir Putin, ad esempio, ha dichiarato che Mosca sarebbe disposta a limitare le estrazioni, salvo venir contraddetto poche ore più tardi dal numero uno di una tra le più grandi compagnie energetiche del Paese, Rosneft. A settembre, infatti, proprio la Russia ha raggiunto il livello record di 11,2 milioni di barili al giorno, la cifra più alta mai raggiunta nelle estrazioni petrolifere dalla fine dell’Unione Sovietica. E proprio Igor Sechin, a capo di Rosneft, ha sottolineato che Mosca potrebbe incrementare ulteriormente la sua produzione, di altri 4 milioni di barili al giorno. Sechin ha poi fatto una previsione secondo cui, nel prossimo anno e mezzo, il barile potrebbe attestarsi sui 55 dollari al barile, una cifra di poco superiore a quella attuale.

A virare contro una limitazione della produzione c’è anche l’Iraq che proprio nei giorni scorsi ha annunciato di aver toccato il picco nell’output petrolifero: 4,776 milioni di barili al giorno nel solo mese di settembre. E il viceministro del petrolio iracheno, Fayadh al-Nema, ha fatto sapere: “Abbiamo sorpassato la soglia dei 4,7 milioni di barili e non c’è dubbio che non torneremo indietro per alcun motivo. Né per l’OPEC né per nessun altro”.

Sulla stessa linea l’Iran, che resta sulle proprie posizioni e anzi ha aperto diverse gare per ottenere investimenti da parte delle compagnie energetiche internazionali, in modo da sviluppare siti e bacini per la produzione di greggio. E sempre Teheran strizza l’occhio all’Europa per le forniture di petrolio e gas.

Sul mercato, inoltre, sta tornando anche la Libia che – riconquistati i principali porti petroliferi – entro fine anno dovrebbe portare il proprio output attorno agli 850mila barili di petrolio al giorno. Cifre certamente lontane da quanto visto in Paesi come l’Iran e la Russia ma comunque un segnale di una volontà di puntare sulle esportazioni per risollevarsi dalla crisi della guerra civile che sta squassando il Paese.

Il crollo delle attività di ricerca ed esplorazione di nuovi bacini

E secondo l’AIE – l’Agenzia internazionale per l’Energia – almeno fino ai primi mesi del 2017 il mondo non sarà in grado di smaltire il surplus petrolifero attuale. Secondo l’ultimo report AIE, infatti, a settembre si è toccato il livello record nella produzione di greggio: 33,64 milioni di barili al giorno. Tanto che il Segretario generale dell’OPEC, Mohammad Barkindo, ha dichiarato che “A causa del crollo dei prezzi del petrolio, i produttori OPEC hanno perso più di un miliardo di dollari di fatturato negli ultimi tre anni. Gli investimenti nel settore petrolifero si sono ridotti del 26% l’anno scorso e si prevede un ulteriore calo di un altro 22% quest’anno”. Una situazione che – come è evidente – rischia di compromettere il budget di Stati e aziende.

E proprio le compagnie petrolifere stanno – di riflesso – limitando le attività di ricerca di nuovi bacini, visti i costi molto alti da sostenere per le esplorazioni. Con il risultato che, secondo uno studio della Wood McKenzie, la quantità di nuovi giacimenti scoperti è al suo punto più basso degli ultimi 70 anni. Per paradosso il rischio è che, se la domanda dovesse riprende a crescere, come stima l’EIA, ci si potrebbe a breve trovare ad avere seri problemi di approvvigionamento. La Banca di investimenti HSBC, ad esempio, ha indicato che l’80% della produzione globale è in declino, a fronte di una domanda globale che l’EIA prevede in crescita fino a 105,3 milioni di barili al giorno entro il 2026.

La situazione è dunque complessa e ben lontana da una possibile soluzione. I Paesi OPEC restano litigiosi, su posizioni distanti e – al netto della buona volontà – nessuno sembra voler rischiare di perdere le proprie quote di mercato nel market internazionale del petrolio.

@emilioftorsello