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Diritto di critica | October 12, 2024

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Mattarella stoppa Savona. E Salvini fa saltare il tavolo

Attacco pericoloso contro le prerogative del Presidente della Repubblica. Ma era la Lega a non voler governare con i 5 stelle

“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. È sufficiente leggere l’articolo 92 comma 2 della Costituzione italiana per scoprire che la nomina dei ministri spetta solo e soltanto al Capo dello Stato.

Precedenti illustri. Non c’è scritto in alcun articolo della Costituzione che questa prerogativa debba essere svolta come una semplice formalità, né che la scelta dei ministri debba avvenire esclusivamente attraverso un giudizio di legittimità. D’altronde anche la consuetudine costituzionale avvalora la prerogativa esercitata da Sergio Matterella. Lo aveva fatto Sandro Pertini nei confronti del presidente incaricato Cossiga ufficialmente su uno specifico nome e, attraverso una lettera, nei confronti di una lista di personalità. Lo ha fatto Scalfaro nei confronti di un certo Cesare Previti, avvocato di Berlusconi, al tempo nemmeno indagato. Previti avrebbe dovuto ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Scalfaro si impuntò su alcune dichiarazioni rilasciate da questo prima delle elezioni. Lo stesso fece Carlo Azeglio Ciampi con Roberto Maroni, proposto dall’allora Cavaliere Silvio Berlusconi a ministro dell’Interno. Venne bocciato perché condannato in primo grado per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. L’ultimo caso ha interessato il governo Renzi. Nel 2014 Giorgio Napolitano chiese all’ex sindaco di Firenze di non proporre il nome di Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso il tribunale di Reggio Calabria. Le motivazioni non sono mai state rese note. Probabilmente Napolitano non gradiva certe esternazioni del magistrato. In nessuno di questi casi le forze politiche di maggioranza hanno mai protestato, né hanno ventilato l’ipotesi di un impeachment che, tra l’altro, non esiste nell’ordinamento italiano. Esiste, al massimo, la messa in stato d’accusa per alto tradimento e violazione della Costituzione. In nessuno di questi casi il presidente del Consiglio incaricato ha rimesso il mandato. Cossiga, Berlusconi e Renzi hanno proposto nuovi nomi e i loro governi hanno visto la luce, senza problemi.

La grave crisi istituzionale. Non è successo lo stesso ieri sera. Mattarella non voleva all’Economia Paolo Savona, già ministro del governo Ciampi perché palesemente anti-euro. Giuseppe Conte, premier incaricato, constata la situazione, ha rimesso il mandato. Non aveva un altro nome da proporre. Ma la scelta era stata fatta da Matteo Salvini: “O Savona, o si vota”. Un diktat inaccettabile per il Capo dello Stato, minato nelle sue prerogative e già contrariato per aver dovuto accettare un signor nessuno come premier incaricato. Insomma, il “governo del cambiamento”, non parte per un nome. Come se le leggi approvate dal Parlamento dipendano dal nome del ministro che le propone al Consiglio dei ministri. Mattarella sembra abbia proposto – rompendo qui il protocollo – il nome di Giancarlo Giorgetti, esponente di punta della Lega. Ma niente. “O Savona, o si vota”. Un casus belli per non governare con i 5 stelle ma alzare i toni per andare presto al voto e capitalizzare la crescita stimata nei sondaggi. Così il Capo dello Stato non poteva far altro che accettare la rinuncia di Conte e dare il via a un governo cosiddetto “del Presidente”. Il nome prescelto è Carlo Cottarelli, economica ed ex commissario alla spending review. Nei prossimi giorni formerà la squadra dei ministri e andrà in Parlamento a chiedere la fiducia. Si tratta dell’ultima possibilità per far partire la Legislatura e più di qualche parlamentare, con il timore di perdere il seggio a settembre, potrebbe appoggiare il nuovo governo. Come farà certamente il Pd. Non voteranno la fiducia la Lega Nord, Fratelli d’Italia e il Movimento 5 Stelle. Sulla carta, quindi, si tratta di un governo senza possibilità. Se l’esecutivo non avrà l’ok dalle due camere, si dimetterebbe, pur rimanendo in carica per il disbrigo degli affari correnti.

“L’Italia schiava dei mercati”. Beppe Grillo, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, nei loro vari interventi in tv e sui social network sottolineano come il Presidente della Repubblica abbia agito guardando all’andamento dei mercati, “i veri padroni dell’Italia”. Lo spread non è un parametro fantasioso come qualcuno in passato ha sostenuto. È l’indice della credibilità del nostro Paese sui mercati finanziari. È un indice che misura il differenziale tra i tassi d’interesse sui titoli di debito pubblico emessi da Germania e Italia. Più sale lo spread, più crescono i tassi d’interesse che il nostro Paese deve pagare per far sì che gli investitori comprino titoli di Stato, cioè denaro prestato allo Stato per gli investimenti. Sul lungo periodo, uno spread alto porta a una crescita esponenziale del debito. Quasi il 40% del debito italiano è oggi in mano a investitori stranieri che vorrebbero un giorno essere ripagati. Oggi gli stessi sono disposti ad acquistare titoli di Stato italiani a tassi più alti di qualche mese fa perché ritengono che questo investimento sia oggi più rischioso. Comandano i mercati, è certo. Perché qualcuno ha fatto in modo che ciò avvenisse. Dagli anni 80 si è lasciato crescere il debito facendo deficit. Cioè, molti governi per avere un maggiore consenso elettorale, hanno lasciato che il debito italiano finisse nelle mani straniere. E oggi per “liberare” l’Italia è necessario tornare ad essere credibili e a ridurre l’enorme debito (il secondo al mondo). O a meno che non si pensi di dichiarare il default. Bancarotta. Allora finiremo come l’Argentina. Basta saperlo. Qualcuno si candidi e dica se questa è la strada da percorrere.