Nient’altro che una Waterloo economica - Diritto di critica
Nel corso della puntata di Annozero del 23 settembre scorso un operaio della Fincantieri, il cui posto di lavoro è a rischio, ha affermato (con un linguaggio un po’ più colorito): «Noi stiamo perdendo il lavoro, il debito pubblico è alle stelle e questi qui si scannano sulla casa di Fini a Montecarlo».
Novantadue minuti di applausi.
Queste parole sono forse l’indicatore più forte e drammatico della distanza che separa il Paese reale dal Palazzo, sia dal lato maggioranza, che non perde occasione di dimostrare la propria incapacità e immobilità nello gestire la corrente crisi economica, come ha sottolineato, addirittura, il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, sia dal lato opposizione, il cui maggiore partito, invece di approfittare della debolezza del governo, ha deciso di avviare l’ennesima faida interna fra Veltroni e D’Alema, il cui duello per il dominio della sinistra, da quindici anni, continua a resuscitare Berlusconi.
Al di là di queste “quisquilie” politiche, forse buone per fare ascolti o per vendere copie di giornali, esiste poi un Paese, l’Italia, che soffre una crisi non solo congiunturale (ovvero di breve periodo), ma soprattutto strutturale; che perdura da oltre vent’anni e che nessun governo, di alcun colore, è riuscito a risolvere. Magari la spiegazione è proprio il fatto che la nostra classe dirigente (le stessa – casualmente? – da oltre vent’anni) si perde nelle “quisquilie” di cui sopra, perdendo di vista e facendo perdere di vista anche ai media lo sfascio economico del nostro Paese. Sintomo di questa situazione è, a mio modesto parere, il fatto che il ministro del welfare (ovvero del benessere) Maurizio Sacconi risulta essere il più amato dagli italiani, senza avere mai fatto nulla di rilevante se non dichiarazioni paradossali circa il mercato del lavoro in Italia, di cui parleremo fra poco.
Non è certo questo lo spazio per affrontare una lunga analisi dell’economia italiana, dunque mi limiterò a dare un’occhiata a tre campi che possono ben sottolineare l’enorme difficoltà in cui versa l’italiano medio, difficoltà che meriterebbe ben più di cinque minuti ad Annozero o trafiletti nelle pagine interne dei quotidiani, magari di economia, sezione che il mainstream apre solo se non ha nulla da fare.
Si tratta di tre campi: in due di essi, secondo il nostro governo, noi staremmo meglio degli altri. Cominciamo da questi.
Il primo campo è il prodotto interno lordo italiano, ovvero la misura della ricchezza del Paese. Non batterò tanto sul fatto che l’Italia cresce da decenni con un tasso “in discesa” sia in termini assoluti che in termini relativi: chi volesse approfondire i motivi di questo declino decennale e vederlo con i propri occhi può fare riferimento a questo mio vecchio articolo. In questa sede voglio soffermarmi sul vicino passato, basandomi su uno studio di BNL (pdf) su dati ISTAT (quindi non del Comintern) rilasciato pochi giorni fa. Lo studio dimostra bene che l’Italia ha subito una crisi congiunturale (2008-2009) di forza circa pari rispetto ai Paesi cui ci paragoniamo (Germania, Francia, Spagna, eccetera). Cito dallo studio (grassetto mio):
Posto uguale a 100 il I trimestre 2008, il Pil in termini reali, dopo essere sceso fino a 93,2 nel II trimestre dello scorso anno, è risultato pari a 94,4 tra aprile e luglio: mancano ancora 5,6 punti percentuali per tornare sui livelli pre crisi. Ipotizzando che il Pil cresca su ritmi analoghi a quelli sperimentati durante l’ultimo anno i valori della prima parte del 2008 verrebbero raggiunti solo all’inizio del 2015; oltre venti trimestri sarebbero necessari per recuperare quanto perso in cinque trimestri di recessione.
In altre parole, per ritornare ad essere ricchi come nel 2008 di questo passo dovremo aspettare il 2015. Non serve essere grandi economisti per capirlo: un calcolo simile l’avevo fatto io stesso (uno studentello) a spanne nel luglio 2009, giungendo allo stesso risultato. Tremonti (che economista non è) forse non ci arriva (così come non è ancora arrivato a capire da che parte è arrivata la crisi economica), ma i suoi consiglieri economici dovrebbero giungere alla conclusione: non è con i proclami che si ferma il declino, ma con decisioni non solo razionali (ovvero almeno non dettate da clientele e patronage), ma anche e soprattutto impopolari (ad esempio come tentò di fare Bersani, trovandosi contro i tassinari romani gelosi delle proprie rendite – non è un caso che quelle lenzuolate sono state o sono per essere abolite – discorso simile può essere fatto per tante altre categorie di persone che vivono di sostanziali rendite da monopolio).
Dunque siamo abbondantemente più poveri rispetto al 2008 e lo saremo fino al 2015. Ma come stanno messi i nostri partner? Lo studio BNL guarda anche a questo, e nota che l’Italia ha fatto segnare la crescita più debole fra i Paesi considerati (Germania, Spagna, Francia, Regno Unito e Stati Uniti). Non mi dilungo sul perché, ma teniamo a mente questo concetto: la Germania ha corso tanto sia grazie all’export che ai consumi interni. Ci servirà tra poco.
Passiamo al secondo campo: la disoccupazione. Si tratta di un campo che viene cronicamente ignorato (nella sostanza, non certo negli slogan) dalla nostra classe dirigente: sarà perché i parlamentari hanno comunque una pensione assicurata dopo tre anni di lavoro, sarà perché ogni tanto capitano delle botte di fortuna come quella capitata al ministro alle foto delle vacanze Frattini, che riceve (almeno) ottomila (ottomila) euro al mese (che significa mensili, tanto per essere chiari) come indennità di disoccupazione relativa a quando lasciò il posto come commissario europeo.
Ai comuni mortali non va così bene. Fatta eccezione per Sacconi. Infatti, ogni mese gli istituti di statistica delle economie avanzate rilasciano i dati sull’occupazione, e l’Italia non fa eccezione. E ogni mese, quando escono questi dati, Sacconi commenta il tasso di disoccupazione ricordando che stiamo meglio degli altri. Ed è vero.
Il problema è che il tasso di disoccupazione altro non è che un rapporto fra numeri e per capirlo occorre dare un’occhiata a tali numeri. Il rapporto è dato dalle persone che cercano lavoro diviso il totale della forza lavoro. Siamo brevi: entrambi i numeri soffrono di distorsioni piuttosto pesanti. Il primo, ad esempio, non vi fa rientrare coloro che vorrebbero lavorare ma che, non riuscendo a trovare lavoro, hanno smesso di cercarlo e magari sopravvivono lavorando in nero per un tozzo di pane, senza sicurezza e contributi; ancora, non vi rientrano neppure gli individui che hanno lavorato appena un’ora a settimana (i “praticamente disoccupati”). E ultimo, ma più importante, in tale tasso non vi rientrano coloro che sono in cassa integrazione. Se aggiungiamo soltanto i cassintegrati, secondo il centro studi di Confindustria (quindi non è intitolato a Karl Marx), la disoccupazione reale in Italia è in linea, se non lievemente maggiore, di quella europea. Con buona pace di Sacconi.
Ma non è finita: passiamo al denominatore, la forza lavoro, che comprende gli occupati e coloro che cercano un lavoro. Notate immediatamente che forza lavoro è diverso da popolazione in età lavorativa (fra i 15 e i 64 anni secondo la definizione Eurostat). Per capire la disoccupazione, dunque, occorre introdurre un altro tasso, rapporto fra forza lavoro e popolazione in età lavorativa, denominato tasso di attività. Eurostat calcola questo tasso e, al 2009, risulta che l’Italia è quella con il tasso di attività più basso se escludiamo Turchia, Malta e Ungheria. Forse il 40% della popolazione in età lavorativa è invalido? No, significa solo che il 40% non lavora e non ne cerca uno. Si tratta, in parte, di inabili al lavoro, o di gente che vive di rendita. Ma sono una minoranza: gran parte di quel 40% che non rientra nella forza lavoro, oltre a quelli in nero, è formato da donne. Il tasso di attività femminile, in Italia al 2009, era poco sopra il 50%, il più basso d’Europa se escludiamo Turchia, Malta ed ex-Jugoslavia. È un segnale di arretratezza prima di tutto culturale italiana: la donna deve lavare, stirare, preparare da mangiare e ogni tanto sganciare un bambino. Si tratta di una visione balzata agli onori delle cronache, in altri termini, quando si parlò delle parlamentari che si sarebbero prostituite per ottenere un seggio. Purtroppo tale visione allontana dalla politica (e dal mercato del lavoro in generale) donne capaci quanto e anche più degli uomini, e rende più povera la nostra economia. Se si favorisse l’entrata delle donne nel mondo del lavoro in condizioni di reale parità ne trarremmo giovamento tutti. Ma per fare ciò occorrono politiche serie per sostenere l’occupazione femminile poiché, solo per fare un esempio, è giusto e sacrosanto che le donne possano decidere di essere e lavoratrici e madri. Imporre loro una scelta è semplicemente assurdo.
Concludendo il secondo campo, si può dire che il mercato del lavoro italiano è più stabile (leggi: migliore della Ue) non grazie ad ammortizzatori sociali “all’avanguardia” (che non esistono: basti pensare che non esiste qualcosa di vagamente paragonabile al reddito minimo garantito presente in altri Paesi europei), né a politiche promosse dal nostro ectoplasmatico ministro del benessere, l’incredibilmente più amato dagli italiani Sacconi. Il merito di tale stabilità è dovuto alla disastrata condizione in cui versa il nostro mercato del lavoro.
E veniamo al terzo campo, quello in cui non siamo migliori degli altri. Parliamo di chi un lavoro ce l’ha e paga le tasse. Quindi non parlerò di evasori, ma di chi non può evadere, i lavoratori dipendenti.
Il grande assente, quando si parla di tasse, è il drenaggio fiscale, o se preferite il fiscal drag. Spiegato in parole semplici, significa che paghiamo più tasse senza accorgercene. Il problema è che noi viviamo nel mondo reale, mentre le nostre tasse vivono nel mondo nominale. Ogni anno i prezzi crescono, ciò significa che se abbiamo uno stipendio lordo fisso di 100, quest’anno potremo comprare meno pagnotte di pane rispetto all’anno prima. Se nel 2009 con 100 potevo comprare 100 pagnotte di pane, nel 2010 ne posso comprarne 91. Per sterilizzare questo effetto si provvede ad un aumento di stipendio a 110. Con tale stipendio potrò comprare 100 pagnotte di pane (che ora costano 1,1, ovvero l’inflazione è al 10%) anche quest’anno.
Introduciamo un sistema fiscale caratterizzato da una progressività a scaglioni molto semplice: si paga il 20% fino a 100 e il 30% da 100 in poi. Nel 2009 il mio reddito netto è quindi di 80, con il quale posso comprare 80 pagnotte di pane. Mi aspetto che nel 2010, per quanto detto sopra, potrò comprarne altrettante. Vediamo: nel 2010 pago 20 di tasse per il primo scaglione e 3 per il secondo, il che significa che ho un reddito netto di 87. Quanto fa in pagnotte? Fa 79, una in meno rispetto all’anno passato. Questo è il fiscal drag: meno pane anche se ho ricevuto un aumento.
Per evitare questo effetto basterebbe adeguare gli scaglioni di imposta al costo della vita: se nel 2010 il governo decide che si paga il 20% non più fino a 100, ma fino a 110 (le aliquote vengono aggiornate all’inflazione), il mio reddito netto sarà 88, ovvero 80 in pagnotte, come nel 2009.
Nella realtà degli ultimi anni l’inflazione è stata tutto sommato molto bassa. Per questo uno potrebbe anche ignorare il problema. In realtà se si dimentica di aggiornare le aliquota per molto tempo un’inflazione piccola piccola nel lungo periodo uccide l’asino, ovvero il lavoratore (perlopiù il dipendente). Altre volte, addirittura, le aliquote vengono sì aggiornate, ma in modo sfavorevole (ad esempio nel 2005 il governo Berlusconi rimodulò scaglioni e aliquote in modo tale che poveri e ricchi pagassero meno tasse, quelli di mezzo ne pagassero di più). Alla fine, secondo uno studio pubblicato sul sito MicroMega, dal 1990 a oggi i più poveri hanno pagato il 28% in più di tasse, mentre i più ricchi (sopra il milione di euro) ne hanno pagate il 10% in meno.
Il fiscal drag, insomma, ci impoverisce. Un mercato del lavoro stabile, nella definizione data sopra, ci impoverisce. La crisi, ovviamente, ci impoverisce. Prendete tutto questo e mettetelo assieme. Ricordate cosa ho detto della Germania? I tedeschi hanno perso con la crisi economica quanto abbiamo preso noi, ma hanno avuto una ripresa ben più forte della nostra grazie sia alle esportazioni che ai consumi interni.
Riprendiamo lo studio BNL: cosa ha influito sulla lenta ripresa italiana? In altre parole, cos’ha la Germania che noi non abbiamo? Le esportazioni le abbiamo, sono la componente più forte della nostra piccola crescita. Cosa manca ? Ovvio, la domanda interna.
Secondo BNL (sempre su dati ISTAT) la domanda interna non cresce da un anno (dal III trimestre del 2009). Infatti, mentre il contributo alla crescita del PIL è stata dello 0,6% per quanto riguarda le esportazioni, il contributo dei consumi privati è stato dello 0,0%.
Il motivo di tutto questo è ovvio: non cresciamo decentemente da molti anni; le tasse non calano nonostante Berlusconi lo prometta dal 1994; anzi, le tasse aumentano per via del drenaggio fiscale; a causa della crisi ovviamente la gente perde o non trova il lavoro…
… i consumatori privati (quelli piccoli e medi) dove li trovano i soldi per consumare?
Cosa hanno fatto il governo e, soprattutto, il ministro Tremonti a riguardo? Ne parlammo nel maggio 2009, e non è che le cose siano cambiate. Interventi strutturali, ad esempio rottura delle rendite da monopolio per favorire prezzi più bassi grazie alla concorrenza? No. Creazione di un sistema giuridico in cui i diritti sono garantiti e la giustizia arriva in tempi ragionevoli? Ma neanche per idea. Lotta all’evasione fiscale? Figuriamoci. Incentivi ai consumi? Sì, la social card. Tagli alle spese? Sì, ma lineari, ovvero si taglia tutto, a prescindere che sia uno spreco (auto blu per il parlamentare) oppure no (libri per le scuole). Per non parlare di interventi geniali come la detassazione degli straordinari in un momento in cui non si lavorava neppure nelle ore ordinarie o il caso Alitalia, che presto replicheremo con il caso Tirrenia.
Lo slogan “Stiamo meglio degli altri” è meno credibile della favola di Pinocchio. Piano piano anche gli irriducibili (Fini, la Marcegaglia) stanno notando che il governo sta suonando sul ponte di una nave che si è scagliata contro l’iceberg. Purtroppo, anche se si parla della fine di Berlusconi, si considera come ipotesi più probabile un governo Tremonti, tanto per passare dalla brace a una brace più grande. L’Italia da cinque mesi aspetta il ministro dello Sviluppo Economico “la settimana prossima”. Intanto le opposizioni continuano a dividersi sulle piccolezze, figuriamoci trovare la forza (e soprattutto le idee) per rovesciare il governo del “fare niente”.
Le scialuppe, comunque, stanno finendo.
Comments