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Diritto di critica | April 21, 2024

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Vittime del terrorismo: «Mio marito ucciso da Eta: anni fa aveva salvato il suo assassino» - Diritto di critica

Vittime del terrorismo: «Mio marito ucciso da Eta: anni fa aveva salvato il suo assassino»

Inizia oggi un viaggio nella vita di una vittima del terrorismo. A raccontare la sua storia è Pilar Elias, vittima di Euskadi Ta Askatasuna – meglio nota come ETA – e consigliere comunale del Partido Popular a Azkoitia. Quella che leggerete è la prima parte di un’intervista realizzata da Francesco Spigoli, pseudonimo di un giovane ricercatore dell’università di Madrid, collabora con l’Unidad de Documentación y Anàlisis sobre el Terrorismo che chiede di restare anonimo per motivi di sicurezza.

L’attentato

«Tutto accadde il 12 maggio del 1980, un giorno scuro, grigio e piovoso. Mio marito uscì come tutti i giorni a lavorare, era una persona mattiniera e doveva recarsi al laboratorio in un villaggio non distante da Azpeitia. Quella mattina notai alcune anomalie ma non sospettando alcun pedinamento non correlai il tutto a quanto accadde in seguito. Quando mio marito uscì da casa, infatti, notai la presenza di un ragazzo che evidentemente lo stava tenendo d’occhio, a pochi metri dall’ingresso. Con il senno di poi mi rendo conto che quell’uomo stava sorvegliando mio marito ma allora non potevo immaginare…

Quando quel giovane si rese conto che mi ero accorta della sua presenza, si allontanò d’una decina di metri. Mi affacciai al balcone adiacente e lui si allontanò ulteriormente, sempre nella stessa direzione. Mi affacciai a una terza finestra ma quel ragazzo era sparito nel nulla.

Verso le otto e mezzo di sera mio marito mi telefonò: “prepara la cena che sto arrivando a casa, ho già finito”. Lo stavo aspettando impaziente, ancor di più lo erano i bambini. Alle nove e mezzo bussò a casa mia un sacerdote carmelitano che conoscevo. La sua presenza a quell’ora insolita mi sorprese. Lo feci entrare in casa e subito mi disse: “Ascolta, Pilar, Ramon ha avuto un incidente”. Gli risposi quasi automaticamente, senza pensare: “Ramon?…Ramon lo hanno ucciso”, mi uscì dall’anima. Sapevo che qualcosa andava male, un suo caro amico e compagno di partito era rimasto vittima d’un attentato due settimane prima e proprio in quei giorni era ricoverato all’ospedale in condizioni critiche. E dissi: “Me lo hanno ucciso, l’hanno ammazzato”, nonostante il prete mi ripetesse: “Non dire questo”. Avvertii la famiglia. Mio padre non perse tempo, chiamó l’autista e uscì alla ricerca di una risposta che era scontata. Trascorsero un paio d’ore, intorno all’una di notte mi telefonò con voce rotta dal dolore: “Avevi ragione, l’hanno ucciso”.

Ma l’assurdo deve ancora venire: diversi anni prima, mio marito aveva salvato la vita ad un bambino. La madre e il fratellino erano stati investiti da un camion e Ramon aveva fatto appena in tempo a strappare dalle braccia della donna il neonato che portava in grembo. Proprio quel bambino da grande sarebbe diventato l’assassino di mio marito: gli sparò e gli diede il colpo di grazia.

E da due anni a questa ho la disgrazia di dovermi ricordare di tutto ogni giorno perché quell’uomo ha aperto una cristalleria sotto casa mia. “Con quali intenzioni?”, mi chiedo. “Non c’era un altro posto?”.  Questa è la situazione peggiore e più orribile che possa capitare ad una persona: tutti i giorni incontro l’assassino di mio marito. Questa non è giustizia.

La festa

Quando uscì dal carcere – in questo villaggio gli assassini, i membri di ETA sono eroi – i militanti di Herri Batasuna gli organizzarono una festa. Mi trovavo a Zarauzt e una signora di Azkoitia si avvicinò mentre stavo entrando al supermercato e mi disse: “Ascolta, Pilar, sai chi liberano oggi dal carcere? E a chi dedicano una festa nella piazza di Azkoitia?”, “Chi?”, “Agli assassini di tuo marito, Kandido Azpiazu e Ignacio Zuazilorriaga”. Rimasi di pietra. Quell’uomo sarebbe dovuto rimanere in carcere per 54 anni: trascorsi dieci già l’avevano rimesso in libertà. Lo chiamano: reinserimento.

Questo ragazzo non si è mai pentito, continua ad essere membro di Batasuna, continua a collaborare, continua a lavorare… E io mi chiedo: “Dove sono le leggi? Com’è questo processo del reinserimento?”. Alcuni si reinseriranno, ma quelli di ETA chiaramente no: mai hanno chiesto scusa, mai hanno consegnato le armi e questo ragazzo nella sacca che porta sempre con sé di sicuro ha un’arma. I terroristi non mostrano alcun pentimento. Ed è che una vittima debba vivere con l’omicida sotto casa. Ancor più paradossale che in questo momento io sia l’omicida e lui la vittima secondo buona parte degli gli abitanti del villaggio. Lui dice che ha diritto a reinserirsi, ed è giusto, io non gli nego questo. Ma in un villaggio di 10mila e trecento abitanti, vi sono diversi locali dove poter aprire un negozio. Con che sfacciataggine è venuto sotto casa mia?»

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