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Diritto di critica | April 20, 2024

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La lenta agonia del lago Titicaca - Diritto di critica

La lenta agonia del lago Titicaca

Una delle sette meraviglie naturali della Terra sta rischiando di trasformarsi in uno dei tanti simboli del degrado del nostro ecosistema. Incastonato tra Perù e Bolivia, il lago Titicaca, le cui millenarie acque hanno fatto da splendida cornice alle antiche civiltà dell’America Latina, è oggi una gigantesca pozza inquinata da plastica, liquami e piena di mucillagine verde, diretta conseguenza delle sostanze tossiche che sono arrivate qui. Le famigerate alghe hanno da tempo monopolizzato le acque, creando una barriera che impedisce a luce e ossigeno di filtrare in maniera adeguata nelle profondità lacustri.

L’allarme è stato lanciato dalla fondazione tedesca Global Nature Fund e da numerosi comitati di cittadini boliviani, che vivono nella parte più contaminata del lago: «La situazione è diventata gravissima – spiega uno di loro – se non ci aiuta la comunità internazionale è davvero finita». Il villaggio di Cohana è l’emblema del disastro ambientale che sta subendo il Titicaca, distesa di 8 mila chilometri quadrati a 3812 metri di altitudine: i pescatori hanno smesso di lavorare perché rane e pesci sono morti, e le rive verdi e rigogliose hanno lasciato il posto a distese di rifiuti sotto le quali la terra è arida e incoltivabile.

Lo strazio ecologico in realtà ha avuto inizio sin dalla fine degli anni Ottanta, quando le regioni di Perù e Bolivia che circondano il lago hanno visto crescere la popolazione in modo esponenziale. La città di El Alto, fino a trent’anni fa solo un quartiere della capitale boliviana La Paz, conta oggi quasi 2 milioni di abitanti, che gettano qualsiasi cosa nel fiume Rio Seco, con le cui acque, incredibile ma vero, cucinano e si lavano; le industrie, anch’esse fiorite dall’oggi al domani senza strutture e depuratori sufficienti, scaricano rifiuti tossici senza porsi alcun problema. Le conseguenze sono doppiamente terribili: da una parte i cittadini di El Alto si ammalano gravemente, dall’altra il flusso del Rio Seco trascina i veleni per 80 chilometri fino alla baia di Cohana, riversandoli direttamente nel Titicaca. L’estrazione mineraria incontrollata (zinco e mercurio, per esempio) e il riscaldamento globale stanno facendo il resto.

La situazione sul versante peruviano appare meno grave, ma anche qui il sovrappopolamento sta producendo effetti negativi sulla vita di fauna e flora. Nel distretto di Puna duecentomila abitanti vivono ammassati in aree adatte per 50 mila. «Aiutateci altrimenti i nostri figli moriranno – ha chiesto Victor Panca Mendoza, sindaco di Uros Chulluni, oasi dove gli indios navigano ancora su piroghe fatte di legno e vimini – Serve al più presto una legge di tutela che metta in pratica misure urgenti, come la costruzione di nuovi depuratori».

Ma le associazioni locali non intendono fermarsi qua: nei prossimi due anni partiranno progetti per finanziare meccanismi di pulizia delle acque e promuovere un turismo sostenibile, mentre la fondazione tedesca Merz (già responsabile di iniziative simili in Paesi come Sri Lanka, Brasile e Kenya) lavorerà alla sensibilizzazione ambientale di chi abita la regione. Una delle speranze per salvare il lago è che l’emergenza del Titicaca abbia visibilità e diventi un problema internazionale, anche perché la distruzione di un ecosistema si ripercuote sull’intero pianeta. «L’Onu e gli altri organismi mondiali devono prendersi cura di noi – ribadisce un altro primo cittadino – nella sola baia di Cohana più di 10 mila contadini non hanno più acqua pulita per le loro bestie che continuano a morire assieme i cristiani».

Basterà? Il tempo è poco per correre ai ripari. Il “lago sacro delle Ande”dal quale, secondo storici peruviani, partirono i fondatori del grande impero Inca, è in agonia, e con lui le esistenze di milioni di persone.