Chiedi chi erano Falcone e Borsellino
Nei ricordi di una bambina di dieci anni sono immagini alla televisione ripetute, voci sommesse, preghiere, occhi increduli. Poi, crescendo, studi, ti informi, leggi, e capisci che quella “strana” storia narrata anche nelle serie tv è drammaticamente reale: è l’orrore di due vite spezzate dalla mafia, le ultime di una lunga lista, in un’Italia violenta, rancida, arrivata alla soglia di un baratro dal quale probabilmente ha continuato poi a precipitare.
Un quarto di secolo. Il lasso di una nuova generazione, a cui chiedere chi erano quei due semplici magistrati ammazzati da centinaia di chili di esplosivo nel 1992, l’uno a pochi mesi di distanza dall’altro. A chi è più adulto, invece, sorga ancora una volta la domanda se il sacrificio di due siciliani per bene, che lottavano contro un mostro più grande di loro, sia davvero servito a qualcosa: «Il 1992 è stato il nostro 11 settembre – così ha riassunto qualche giorno fa il giornalista Francesco La Licata – Per l’entità del danno che il nostro Paese ha subito e perché quello che Falcone e Borsellino avevano fatto in vita non ha metro di paragone».
Il “metodo Falcone” Giovanni Falcone e il suo pool hanno cambiato per sempre il modo di combattere la mafia, studiandone i movimenti, i traffici di denaro, seguendone le scie di sangue, ben sapendo cosa significasse dedicare la propria esistenza a questa battaglia. Spesso ci si dimentica, dal di fuori, di quanti anni di lavoro, di pazienza, di quotidiana lotta ci siano voluti (e ci vogliano ancora) per arrivare ad ogni piccolo o grande, ma fondamentale successo. Come quello di utilizzare i pentiti per smascherare e definire Cosa Nostra, o istruire, nel surreale isolamento dell’Asinara, il Maxiprocesso alla mafia, che nel 1986 sentenziò 360 condanne e 2665 anni di carcere. Fino a quando lo Stato abbandona proprio chi cerca di difenderne i valori, in un vigliacco voltafaccia che continua a sbigottire e a fare rabbia. Maldicenze quasi assurde, trame di potere e giochi politici scavano attorno al magistrato, che rimane isolato: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande – disse con lucida analisi nel 1991 – Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».
L’orrore da non dimenticare Il 23 maggio di venticinque anni fa, a Capaci, oltre a Falcone perdono la vita la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Cinquecento chili di esplosivo in un cunicolo lungo l’autostrada A29, azionati con un radiocomando. Un attentato del genere, così esteso, dettagliato e organizzato, non può essere stato architettato da una manciata di mafiosi di origine contadina. Chi conosceva gli spostamenti secretati del giudice? In sede processuale, di fatto, non è mai stata identificata la fonte che comunicò alla mafia la partenza di Falcone da Roma e l’arrivo a Palermo per l’ora stabilita. Ad oggi non abbiamo, e forse non avremo mai, un pentito di Stato che faccia luce sulla vicenda.
In questi tempi di società distratta, di mafia silenziosa penetrata ovunque e dagli affari più diversi (e Falcone lo aveva capito) l’importante è parlare. E parlarne, di quel 1992, parlarne il più possibile, fino a sfinirsi, ma senza retorica, senza quel commemorare dolceamaro che suonerebbe stridulo e forzato, e che a Falcone probabilmente non piacerebbe: «Non sono Robin Hood – spiegò un giorno – né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium».