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Diritto di critica | October 3, 2024

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Il “collegato lavoro”, la norma che ha diviso i precari - Diritto di critica

Il “collegato lavoro”, la norma che ha diviso i precari

Prosegue l’approfondimento di Diritto di Critica sulla legge n.183 del collegato lavoro, approvata il 4 novembre 2010 al termine di un iter parlamentare iniziato nel 2009. Sospesa negli effetti fino al 1 gennaio del 2012 (anche per i contratti in scadenza al novembre del 2010), con l’ultimo decreto Milleproroghe, è in attesa della pronuncia della Corte costituzionale che stabilirà se è legittimo o meno il risarcimento onnicomprensivo, stabilito per legge tra le 2,5 e le 12 mensilità, per i lavoratori a cui non è stato rinnovato il contratto a tempo determinato scaduto.

“Uno dei campi sui cui è intervenuto il collegato lavoro – dice a Diritto di critica il giudice del lavoro Massimo Pagliarini – è quello del contratto a termine. Fino all’entrata in vigore del collegato, le regole per legge o per giurisprudenza consolidata erano quelle per le quali se in presenza di un rapporto a termine il motivo dell’apposizione della causale temporale fosse stato illegittimo, il giudice provvedeva a convertire il rapporto, a trasformarlo da determinato ad indeterminato, risarcendo il lavoratore nella misura delle retribuzioni non percepite a partire dalla cosiddetta messa in mora: ovvero da quando il lavoratore ha manifestato l’interesse a tornare al lavoro fino al ripristino del rapporto. Il collegato lavoro – spiega Pagliarini – interviene non tanto sul profilo della conversione, perché lo lascia salvo (oggi rimane ferma la conversione del rapporto a tempo indeterminato), quanto sull’aspetto risarcitorio. Perché ha previsto un’indennità onnicomprensiva, indipendentemente dal momento in cui il lavoratore ha manifestato la volontà di tornare a lavorare, e limitata con una forbice da 2,5 a 12 mensilità (le retribuzioni sono dimezzate, dalle 2,5 alle 6 mensilità, se l’assunzione del lavoratore è avvenuta previo accordo sindacale)”.

L’interrogativo prevalente riguarda la possibilità che la misura risarcitoria vada ad aggiungersi o meno all’obbligo di pagare al lavoratore le retribuzioni precedenti. L’interpretazione prevalente, suffragata dalla pronuncia delle corte di Cassazione, è che l’indennità non vada a sovrapporsi alle mensilità passate, ma che le sostituisca. “E’ chiaro – sottolinea Pagliarini – che si è in presenza di una prospettiva più riduttiva delle tutele per il lavoratore rispetto al passato. Questa è misura a favore del datore del lavoro che, qualora perdesse la causa con l’ex dipendente, avrebbe la certezza di pagare al massimo 12 mensilità. Il collegato lavoro deve essere interpretato, per ora, come una norma che limita il quantum del risarcimento”.

Le aziende hanno accolto con favore questo provvedimento, anche perché non riduce la lunghezza dei processi, a danno del lavoratore. “L’impresa – dice il giudice del lavoro a Diritto di critica – avrà tutto l’interesse a portare avanti il procedimento, perché non dovrà pagare il dipendente e perché sa che più di un limite massimo, non può rischiare. I tempi del giudizio che, fino all’entrata in vigore del collegato lavoro, venivano risarciti, ora non più”.

L’impressione che ha dato la legge non è delle migliori, almeno per quanto riguarda i lavoratori: “Il provvedimento – precisa Pagliarini – nel complesso non parla soltanto di occupazione, ma di altre tematiche. Ci sono delle singole disposizioni che possono essere accolte con spirito positivo, ma il problema vero è che si parte da alcune situazioni critiche, come nel caso del processo breve e la responsabilità del giudice, e poi si strumentalizzano perché si arriva a conclusioni quantomeno allarmanti”.

Il contratto a termine ormai è una realtà nel panorama italiano ed il collegato lavoro non sembra un provvedimento volto alla stabilizzazione del rapporto lavorativo.“La possibilità di impugnare il contratto scaduto entro 60 giorni – sottolinea Pagliarini – potrebbe essere letto con favore, perché fino ad oggi non c’erano dei limiti di tempo per rivolgersi al giudice. Anche un contratto scaduto, a distanza di anni, poteva essere impugnato con un ritardo. Con il collegato lavoro, fissare dei tempi anche per i contratti a termine (come c’era già per il licenziamento) potrebbe essere letto positivamente, però il lavoratore si trova stretto in una morsa tra il dovere impugnare nei 60 giorni un contratto a termine scaduto e non avere più alcun diritto scaduto quel termine. Seppure la normativa italiana preveda che il rapporto a tempo indeterminato debba essere il regime ordinario dell’assunzione del lavoratore, l’allargamento della possibilità dell’assunzione a termine (prende origine da una riforma del 2001), ciò ha consentito alle aziende di ricorrere alla manodopera con motivazioni più elastiche rispetto al passato. Per non parlare – precisa il magistrato – di alcune aziende, che notoriamente sono nell’occhio del ciclone. Prima fra tutte Poste Italiane, con un’inflazione di ricorsi di lavoratori, perché l’azienda ha fatto un uso a dismisura dei contratti a termine”.

In un regime di precarietà del lavoro e dei contratti a termine, l’impugnazione appare la via più sicura per essere reintegrati: “Dalla visuale che ho – sostiene Pagliarini – molto spesso le causali di assunzione nei contratti sono generiche. Non manifestano le ragioni per le quali il datore di lavoro, invece di assumere a tempo indeterminato, assuma a tempo determinato. Di fronte a queste ipotesi bisogna fare ricorso, i mezzi ci sono per tutelarsi. La legge – aggiunge il giudice del lavoro –, nelle ragioni di assunzione, parla di esigenze produttive, organizzative, però questo non basta. Bisogna specificare già al momento dell’assunzione qual è la ragione oggettiva o organizzativa e farlo in maniera specifica. Perché il sistema, a fronte di questo allargamento della possibilità di assumere a termine, richiede di specificare, per capire già al momento della lettura del contratto, quale sia la ragione per cui è stato impiegato”.

E una volta che il giudice ha ordinato il reintegro del ricorrente si è al sicuro? Non necessariamente. “Dopo le pronunce del giudice – conclude Paglirini – con la trasformazione del contratto da tempo determinato a quello indeterminato, ci può essere una retribuzione del lavoratore a casa, da parte dell’azienda, poiché la stessa non accetta di corrispondere gli emolumenti al dipendente, sostenendo che egli percepisca già altri redditi. In quel caso si ha un nuovo procedimento (anche se il primo giudizio è esecutivo) e l’azienda deve rispettare la sentenza”.