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Diritto di critica | April 26, 2024

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Le lacerazioni dell'Islam italiano, "ma la Dottrina non c'entra"

Intervista a Ibrahim Gabriele Iungo, direttore editoriale della rivista “‘Âlim - The Sharî‘ah Scholar's Journal”

di | 20 Mag 2014Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard

La moschea di Milano non ancora realizzata. Esigenze sapienzali e dottrinarie, politicizzazione della religione che a volte si insinua all’interno della comunità islamica. Cosa succede nella comunità religiosa non cristiana più numerosa d’Italia? Lo abbiamo chiesto a Ibrahim Gabriele Iungo, studente all’Università di Medina e direttore editoriale della rivista “‘Âlim – The Sharî‘ah Scholar’s Journal”. Iungo segue cicli di formazione permanente presso diversi Sapienti (‘Ulamâ’) e formatori musulmani, da cui ha ottenuto licenze di trasmissione tradizionale (ijâzât).

La costruzione di una grande moschea a Milano ha suscitato molte polemiche, mettendo in luce le forti divisioni della comunità islamica: è corretto ritenere che si tratti di una vicenda che rispecchia la situazione più generale dell’Islâm italiano?

“La struttura tradizionale della comunità islamica si fonda su alcuni elementi essenziali (usûl), unanimemente condivisi da tutti i credenti, e su un ampio margine di divergenza per le questioni secondarie o derivate (furû‘): ciò che spesso viene indicato come una “divisione”, in origine rappresenta dunque una legittima differenza interpretativa (ijtihâd), che di per sé non costituisce un motivo di contrapposizione comunitaria, od un sintomo di settarismo. Queste divergenze sono generalmente composte e risolte attraverso il ricorso al magistero sapienziale – secondo l’indicazione coranica: «Chiedete alla Gente della Conoscenza (Ahla d-Dhikra), se non sapete». È su quest’ultimo aspetto che emerge la criticità della situazione della comunità islamica milanese, ed in generale di buona parte delle comunità islamiche in Italia: da un lato, gli elementi di divergenza che si verificano non sono affatto di natura dottrinale, bensì legati esclusivamente a questioni di ordine politico e di affinità ideologica; dall’altro, per gestire e tentare di comporre queste contrapposizioni, non si fa riferimento né a Sapienti (‘Ulamâ’) né a persone con qualche competenza šara‘îtica, bensì a “rappresentanti” che, essendo spesso del tutto privi degli strumenti dottrinali adeguati, finiscono al contrario per acuire queste contrapposizioni, facendone un motivo di scontro e di frammentazione. D’altra parte, certamente a Milano si concentrano interessi di ordine più ampio, rappresentando quindi sotto diversi punti di vista un caso a sé”.

Mancano guide spirituali e Sapienti adeguatamente preparati, in grado di fronteggiare le esigenze dei musulmani nel nostro Paese?

“È necessario distinguere due piani, tra loro diversi e complementari: quello della sapienzialità e quello dell’assunzione diretta di responsabilità politiche e comunitarie. Per quanto riguarda il primo, in Italia vivono ed operano persone che non solo hanno conseguito diplomi universitari in discipline šara‘îtiche, ma hanno altresì intrapreso curricula di studi tradizionali che ne garantiscono le competenze e l’affidabilità; purtroppo, la loro presenza nel nostro Paese è tutt’altro che valorizzata: alle frequenti difficoltà linguistiche, si accompagnano spesso quelle di natura economica – che li costringono a compiere doppi o tripli lavori, ed a dipendere troppo strettamente dai mutevoli orientamenti delle diverse comunità in cui si trovano ad operare. Gli incarichi di “rappresentanza” comunitaria sono spesso perlopiù slegati da queste figure di riferimento – la cui reale influenza è spesso assai ridotta, se non del tutto assente – e sono distribuiti generalmente sulla base della conoscenza della lingua Italiana, della capacità di mediazione e di interlocuzione con le istituzioni locali – nonché, in determinati contesti, sulla base di “appartenenze” familiari, del grado di “fedeltà” settaria, etc.  A mancare non sono dunque i riferimenti sapienziali – quantomeno da un punto di vista generale, e per quanto riguarda gli “affari correnti” delle comunità – bensì quelle opportune soluzioni di continuità che ne valorizzino il ruolo, mettendoli nella condizione di rapportarsi costruttivamente col contesto italiano, e che d’altra parte stabiliscano degli opportuni “filtri” all’accesso a ruoli rappresentativi, che a tutt’oggi sono perlopiù sprovvisti di qualsiasi qualifica di ordine dottrinale – ovviamente necessaria, laddove ci si ponga come esponenti rappresentativi di una comunità di fede.

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