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Diritto di critica | April 30, 2024

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Il reporter delle guerre dimenticate, intervista a Giorgio Fornoni - Diritto di critica

Il reporter delle guerre dimenticate, intervista a Giorgio Fornoni

Reporter delle guerre dimenticate, sempre in prima linea a favore dei diritti umani: da trentacinque anni Giorgio Fornoni percorre il mondo in lungo e in largo, telecamera in mano, per testimoniare in prima persona la profonda umanità che nasce dalle guerre e dal degrado. Angola, Cecenia, Eritrea, Liberia, Timor Est, Cambogia, ma anche la via della coca in Bolivia e Perù o i diamanti insanguinati del Congo: sono solo alcune delle inchieste che nel corso degli anni l’hanno portato a lavorare a fianco di Milena Gabanelli in Report. Autore del libro-dvd “Ai confini del mondo”, Fornoni racconta a Diritto di Critica la sua esperienza nei paesi di guerra e le contraddizioni dei paesi ‘civili’ occidentali.

Cosa ti ha spinto a diventare un reporter ‘di prima linea’?

Sono sempre stato affascinato dalla figura dei missionari, persone che operano in prima linea laddove c’è la sofferenza: guerre, campi profughi, situazioni di degrado e povertà. Spesso sono andato a trovarli e ogni volta il desiderio di vedere e toccare con mano la sofferenza dell’uomo si faceva più intenso: dove c’è dolore è anche possibile trovare una dimensione umana completamente diversa da quella a cui siamo abituati, molto più profonda. Sono diventato reporter spinto dal bisogno di raccontare ciò che vedevo: non solo la sofferenza, ma anche l’umanità nella sua espressione più autentica.

Sei stato poi contattato dalla Gabanelli per Report

Esatto. Nel ’99 Milena Gabanelli, dopo aver saputo di un mio servizio girato sulla prima linea degli scontri tra Eritrea ed Etiopia – dove avevo ripreso i corpi abbandonati nel deserto, a cui nessuno si degnava di dare sepoltura- mi contattò per poter vedere l’esclusiva.  Mi chiese poi dell’altro materiale che avevo raccolto durante gli anni. Fu solo nella Pasqua dell’anno successivo che mi propose di unirmi alla squadra di Report. Dettai un’unica condizione: poter continuare ad occuparmi dei temi che mi interessavano, cioè guerre, diritti umani, traffici illegali, degrado ambientale e umanitario.

Nei tuoi reportage porti spesso alla luce il legame tra sfruttamento del territorio e povertà delle popolazioni locali.

Sono realtà strettamente collegate. Uno degli ultimi reportage che ho girato, sullo sfruttamento del delta del Niger, va proprio in questo senso. In quell’area non c’è solo il problema legato agli scontri tra ribelli e Governo a causa delle concessioni per l’estrazione del petrolio alle compagnie petrolifere occidentali: c’è anche l’enorme piaga dell’inquinamento ambientale e dell’aria. Tra le fuoriuscite di greggio e di gas, bruciato in enormi fiaccole per riuscire poi ad estrarre il petrolio, le condizioni di vita delle popolazioni locali sono sempre più misere: la pesca è diventata impossibile e ci si ammala continuamente a causa delle contaminazioni. Tutto questo mentre le compagnie petrolifere esportano senza riconoscere niente alle popolazioni del posto.  Un discorso simile si può fare per il Congo, uno dei paesi più ricchi del mondo per materie prime, dove la popolazione è però tra le più povere del pianeta. Oro, diamanti, ma anche e soprattutto coltan, (metallo indispensabile ai paesi occidentali perché è il materiale base per  tutto l’high-tech) vengono estratti illegalmente grazie allo sfruttamento dei bambini e degli abitanti dei villaggi, sottomessi alle mafie locali o alle forze miliari corrotte. Il coltan viene poi portato in Ruanda, e da lì parte regolarmente per raggiungere i paesi occidentali: anche di questi traffici alla popolazione locale non rimane niente.

C’è un’esperienza che ti è rimasta particolarmente impressa?

Negli Stati Uniti sono entrato nel ‘braccio della morte’: un’esperienza traumatica. Il filo spinato, i cancelli di ferro che sbattono dietro di te. Già questo dà la sensazione di morte. Si giunge poi nella sala dove i prigionieri possono parlare con i parenti: solo un vetro separa il mondo dei vivi dal ‘non-mondo’ dei condannati, che perdono il nome per diventare numeri. Ho anche potuto assistere ad un’esecuzione per iniezione letale, un’esperienza che non riuscirò mai a scordare, così come la sensazione raccapricciante di trovarsi ad assistere ad un’operazione chirurgica di routine. I giustiziati vengono seppelliti nel cimitero del carcere: centinaia e centinaia di croci, ma nessuna di queste croci riportava un nome. Portavano tutte solo dei numeri.  Sempre nell’ambito della stessa inchiesta  sulla pena di morte nel mondo sono stato in Cina, dove camioncini attrezzati aspettano il condannato direttamente fuori dal tribunale per eseguire la condanna al momento: si teme che questa pratica serva ad alimentare il commercio di organi. Per quanto riguarda la Russia, i condannati detenuti nelle carceri di massima sicurezza vivono in condizioni di tale degrado da arrivare a chiedere l’esecuzione pur di potervisi sottrarre. Ho impiegato un anno e mezzo per superare il trauma di questa inchiesta.

Cosa ti dà la forza di continuare a documentare tutta questa sofferenza?

La cosa più importante per me è andare e raccontare ad alta voce tutte queste storie affinché, in qualche modo, si tenti di mandare un messaggio di giustizia anche per questa gente che non ha voce.

Come si racconta una guerra?

I giornalisti, quando vogliono riportare una guerra, di solito seguono i militari e denunciano ciò che vedono. Ma quella non è la guerra: è solo uno dei fronti. L’altro fronte è quello della guerriglia. Io cerco sempre di andare anche da quella parte e intervistare i capi ribelli (ad esempio Jonas Savimbi, ex capo della guerriglia angolana, ndr), perché anche quel fronte ha le sue ragioni, sebbene nessuno le voglia mai raccontare.  E c’è anche un terzo fronte: quello della povera gente, l’unica che in ogni guerra perde sempre.

Quando hai trattato il tema della Cecenia, nel 2000, hai avuto la possibilità di conoscere Anna Politkovskaja.

Grazie a quell’inchiesta ho avuto la fortuna di conoscere la  Politkovskaja, unica tra le tanti voci del periodo che non si schierava né dalla parte del Cremlino, né da quella della guerriglia cecena: chiedeva di trovare un accordo pacifico, perché sapeva che a pagare per questi scontri era la popolazione civile. Lei era la voce della coscienza della gente che soffriva. Era l’unica giornalista accettata e riconosciuta anche dai guerriglieri ceceni, perché ritenuta credibile. Ricordo la sua risposta, quando le ho chiesto se avesse paura del Cremlino:«Tutti hanno paura ora ma paura o no, questa è la mia professione, quindi devo andare avanti e denunciare queste cose: anche se ho paura questo è il lavoro che devo fare». Sapeva perfettamente che correva un grosso rischio, e le hanno fatto pagare il fatto di non essersi schierata da nessuna delle due parti.

Ritieni che ci possano essere delle guerre ‘giuste’, se inevitabili per ottenere risultati di per sé positivi come la libertà o l’indipendenza?

No. Non esistono guerre giuste, perché tutte vengono combattute sempre sulle spalle dei civili. Basti pensare all’Iraq: solo secondo le cifre ufficiali, sono morte più di centomila persone. Stessa cosa in Cecenia: più di duecentomila vittime civili, alle porte dell’Europa, senza che nessuno quasi ne abbia parlato. Per ottenere cosa? Quando ho intervistato Grigorij Pomeranc, un sopravvissuto ai gulag, mi ha detto «La guerra è il male e il male non è percepito dall’uomo medio: viene percepito solo quando arriva sulla porta di casa».

Cosa pensi delle varie politiche di peacekeeping portate avanti anche dall’Italia su diversi fronti caldi attuali, come ad esempio l’Iraq o l’Afghanistan?

Peacekeeping vuol dire portare la pace, non inviare aerei da attacco o bombardare. In Iraq, non molto distanti da dove sono morti anche molti militari italiani, c’erano i camini dei pozzi petroliferi: altro che peacekeeping, eravamo lì a difendere i nostri interessi, come tutti gli altri! Dicono che si combatte per estirpare il terrorismo, ma il terrorismo nasce dalla povertà. Le guerre provocano altra povertà e miseria e rendono quindi il terreno ancora più fertile per la nascita terrorismo sempre più estremo. E’ un circolo vizioso.

E le organizzazioni umanitarie?

Le organizzazioni umanitarie, purtroppo, sono piene di contraddizioni. Cercano di racimolare fondi per portare degli aiuti, fondi che chiedono alle Nazioni unite o all’Unione Europea o al Governo Italiano: così facendo, implicitamente accettano la linea politica di quegli organismi internazionali e ciò le rende non più del tutto indipendenti. Bisognerebbe partire da più indietro ed estirpare le cause che generano la necessità delle ong, non ricorrere ad esse come palliativo o come tampone quando ormai il danno è fatto.