Guantanamo nove anni dopo: le promesse mancate - Diritto di critica
- Erica Balduzzi+
- 11 Gennaio 2011 Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
«Un mostro giuridico che ha causato la violazione dei diritti umani nei confronti di chi vi è detenuto e che rischia di non portare giustizia nemmeno alle vittime dell’11 settembre, per le quali indirettamente è stato costruito»: è questo il parere di Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International, sul carcere di Guantanamo, aperto l’11 gennaio di nove anni fa. Un anniversario reso più amaro dal fatto che non dovrebbe essere nemmeno ‘festeggiato’: il 21 gennaio del 2009 il presidente statunitense Barack Obama aveva infatti promesso la chiusura del carcere entro un anno. Di anni ne sono già passati quasi due e non solo Guantanamo è ancora aperto, ma continuano ad esservi detenuti 174 prigionieri.
La maggior parte di essi, perlopiù yemeniti, sono nel carcere da almeno otto anni, senza una precisa incriminazione e senza essere mai stati portati a processo. «La categoria in cui ricadono – spiega Noury a Diritto di Critica – è piuttosto incerta: per loro è stata creata la definizione di ‘combattenti nemici illegali’, che però non ha nulla di giuridico. Si trovano quindi in una condizione di detenzione illegale». E se il diritto internazionale prevede che i prigionieri siano portati a processo in tempi rapidi, che conoscano le accuse mosse nei loro confronti e che siano giudicati da commissioni federali, è inutile dire che niente di tutto ciò è avvenuto a Guantanamo. Al contrario: dei circa 800 detenuti rinchiusi nel centro nei periodi di massima capienza (2002-2003), solo 5 prigionieri fino ad oggi sono stati portati a processo, per di più da commissioni militari istituite nel carcere stesso anziché da corti federali sul territorio statunitense. Si tratta di David Hicks (australiano), Salim Ahmed Hamdan e Ali Hamza al-Bahul (yemeniti), Ibrahim al-Qasi (sudanese) e Omar Khadr (canadese). Di essi, soltanto Ali Hamza al-Bahul è stato condannato all’ergastolo, mentre gli altri hanno avuto dovuto scontare pene ridotte. Un sesto processo a carico di un cittadino della Tanzania, Ahmed Ghaliani, dovrebbe concludersi il prossimo 25 gennaio. E gli altri? «Nel 2005 sono iniziati i rilasci. – spiega ancora Noury – Inoltre dopo la promessa di Obama era stata istituita un’apposita task force per valutare la posizione dei singoli detenuti nel carcere: era stato rilevato che 36 di loro avrebbero dovuto essere giudicati, 48 restare a Guantanamo senza accusa né processo, mentre gli altri potevano essere rilasciati. I dati però non coincidono con la situazione reale – aggiunge – dato che i prigionieri sono ancora 174 e la situazione non accenna a cambiare in tempi brevi».
Il problema dei processi preoccupa le organizzazioni umanitarie come Amnesty. Guantanamo è stato trasformato da base militare a carcere nel 2001, per venire incontro all’esigenza americana di avere un luogo dove detenere a tempo indeterminato persone sospettate di essere legate al terrorismo internazionale e quindi pericolose per la sicurezza: il fatto di non trovarsi sul territorio federale e quindi di non essere sottoposto alla giurisdizione dei tribunali statunitensi ha rappresentato un ulteriore vantaggio nella costruzione del luogo di detenzione. Prova ne è il fatto che i sei processi finora aperti sono in mano a commissioni di tipo militare, istituite cioè sul territorio stesso di Guantanamo: si tratterebbe di organi giudiziari molto iniqui con un diritto di difesa fortemente limitato. «Se si dovesse riuscire a processare tutti i detenuti in corti federali anziché militari – spiega ancora Noury – c’è l’enorme possibilità che le prove a loro carico vengano giudicate non valide, perché estorte sotto tortura o in condizioni di interrogatorio contrarie alle norme internazionali». Ad aggravare la situazione c’è il fatto che la maggior parte dei detenuti siano stati catturati con operazioni ‘a strascico’ nei territori del Pakistan e Afghanistan, grazie non alle forze armate americane, bensì a tribù o servizi locali che poi hanno ceduto i prigionieri agli americani in cambio di denaro. «Una situazione – commenta Noury – che ha portato alla cattura di moltissimi innocenti. Per questo le prove e le condanne andrebbero verificate con processi equi e regolari».
Le probabilità che ciò avvenga, e soprattutto che avvenga alla svelta, sono però minime. In sede di approvazione della finanziaria 2011 è stato infatti detto chiaramente che mancano i soldi sia per trasferire i detenuti di Guantanamo negli USA che per processarli in territorio americano, sebbene già un anno fa il procuratore generale statunitense avesse annunciato che 5 detenuti – che si trovano tuttora ancora a Guantanamo – sarebbero stati portati a New York per essere giudicati da un tribunale federale. Alle problematiche di natura economica si aggiunge anche una forte opposizione dell’opinione pubblica ad un eventuale rilascio dei detenuti innocenti in territorio americano. «Ma soprattutto – aggiunge Noury – non bisogna dimenticare che almeno venti detenuti di cui è stata dimostrata la non colpevolezza non possono rientrare nei loro paesi, perché rischierebbero la persecuzione: vengono da Cina, Libia, Russia, Siria, Tagikistan, Tunisia e Palestina. Prima di essere rilasciati dovrebbero essere ricollocati in altri stati europei, ma anche questo fronte è completamente fermo». E finché queste due condizioni – il trasferimento dei detenuti su territorio americano e la protezione internazionale per chi non può tornare nel proprio paese- non saranno soddisfatte, la chiusura di Guantanamo rimane un miraggio lontano.
L’unica nota positiva è il fatto che ormai Guantanamo non sia più impenetrabile come invece era i primi anni dalla sua apertura. Anzi, paradossalmente è diventato il centro detentivo di cui si conosce più rispetto alle altre carceri collegate direttamente o meno alla guerra al terrore. «I centri detentivi in Afghanistan, a Kandahar e Bagram, sono ancora operativi e gestiti dagli americani, – continua Noury – mentre quelli in Iraq istituiti dopo la caduta di Saddam sono passati quest’estate nelle mani degli iracheni e circa trentamila detenuti consegnati dalle forze statunitensi a quelle locali. Ma gli Stati Uniti avrebbero dovuto chiedere e ottenere garanzie sulla non tortura di queste persone, cosa che invece non è stata fatta».
Le condizioni dei prigionieri a Guantanamo invece paiono essere migliorate negli ultimi anni, forse proprio per merito della maggiore visibilità del centro e delle forti polemiche fioccate quando si era saputo delle torture a cui i detenuti erano sottoposti: gabbie al posto di normali celle, isolamenti prolungati, tecniche di interrogatorio cosiddette ‘rinforzate’ (una delle quali era la minaccia di annegamento in caso di mancata collaborazione) e tutta una serie di pressioni e torture basate su ciò che Rumsfeld aveva definito «studio dei punti deboli dell’avversario», ovvero avversari quasi esclusivamente di religione musulmana. Da qui, interrogatori con i cani (considerati nell’Islam animali impuri), obbligo di rimanere nudi durante le domande anche davanti al personale di sesso femminile o di tagliarsi la barba (segno di identità religiosa e di potere), a cui si aggiungevano la negazione di cibo, sonno e acqua o la musica ad altissimo volume per ore intere. « Tutte tecniche che non lasciano segni fisici – spiega ancora Noury – ma che fiaccano la persona sul piano psicologico». Alcuni detenuti sono tuttora in isolamento: anni e anni di condizioni detentive di questo tipo, soprattutto sommate alla mancanza di speranza di ottenere un processo per vedere dimostrata la propria innocenza, provocano danni fisici e psicologici notevoli.
«Guantanamo – conclude Noury – non è servito a fare giustizia dopo l’11 settembre. Al contrario, ha soltanto abbassato gli standard internazionali in fatto di processi equi e torture».
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