Da Castelvolturno a Nardò, qualcosa sta cambiando - Diritto di critica
Castelvolturno, ottobre 2010. Rosarno e Lampedusa, all’inizio del 2011. E ora Bari, Nardò, Capo Rizzuto. I campi di pomodori e le celle dei Cie ribollono della stessa rabbia, la stessa disperata richiesta di dignità. Non illudiamoci che finisca tutto in una sassaiola e due falò sui binari: le ragioni sono profonde, il cambiamento è in atto.
La rivolta di Nardò è solo l’ultima tappa, la più recente: la stagione delle rivolte è iniziata da almeno 2 anni. A CastelVolturno, nel 2009, i lavoratori migranti hanno imparato ad organizzarsi, incrociando le braccia all’unisono per vedersi aumentare la paga. Da 2-3 euro ad almeno 5 euro l’ora. Ancora abbondantemente al di sotto del contratto di lavoro, che ne prevederebbe 6 per la raccolta di frutta nei campi: ma comunque una cifra più dignitosa, per chi lavora senza tutele sanitarie e assistenziali.
Manifestare per i migranti non è solo questione di denaro, ma anche di vita. Ad ottobre del 2009 il clan camorristico dei Casalesi uccise, in pieno giorno, 6 immigrati ghanesi in una lavanderia del centro di Castelvolturno: a guidare il commando, armato di kalashnikov, il capoclan Giuseppe Setola, condannato ad aprile a 23 anni di reclusione. Nelle motivazioni della sentenza, “la natura terroristica dell’attacco”, studiato per intimorire i migranti ed impedire loro nuove alzate di testa.Non è bastato, non si sono arresi alla schiavitù del silenzio.
Dopo di loro c’è stato Rosarno, la guerriglia urbana tra giovani neri arrabbiati e italiani spaventati (con ragione, per il rischio, ma a torto, perchè dal loro sfruttamento hanno tratto vantaggio per anni). La violenza è giusta, quando le ragioni che la determinano lo sono? No, viene da dire a noi che viviamo al caldo: ma forse ci fa solo comodo predicare la non-violenza, visto che usiamo altre armi per asservire l’altro.
Oggi è la Puglia ad esplodere. Da una parte c’è la violenza scoppiata nel centro di accoglienza rifugiati – che non accoglie – e nel Cie – che non identifica ma trattiene dietro sbarre per mesi: ci si meraviglia che sia scoppiato solo ora il bubbone. Ma dall’altro lato c’è lo sciopero, molto più serio ed economicamente potente, dei braccianti agricoli nei campi di pomodori e angurie. Incrociano le braccia da 3 giorni a Nardò e nel Salento, e i frutti già rischiano di marcire al sole.
Qual è la prossima bomba sociale a rischio? Ce lo dice l’Ires Cgil, con uno studio sulle faglie critiche della nostra penisola: Caserta, Crotone, Napoli, Siracusa, Ragusa, Caltanissetta, Reggio Calabria, Salerno, Catania, Trapani, Foggia, Taranto, Palermo, Agrigento e Lecce. Tutto il Sud, dove, secondo lo studio “equilibri distorti sul territorio, dal punto di vista economico e sociale, determinano l’inevitabile esplosione di tensioni, delle potenziali ‘nuove Rosarno’, vere e proprie polveriere”.
Aree dove il sistema economico si regge sull’uso della forza-lavoro straniera, sulla sua debolezza contrattuale, sul ricatto della denuncia. Non sta funzionando granché: i migranti hanno capito il danno economico che può derivare dal loro sciopero, e si organizzano. Con determinazione. A volte anche con violenza. E la radice è sempre la stessa: una condizione economica e sociale critica, completamente squilibrata a loro sfavore. Urge rimediare, o prepararsi a nuovi scontri.