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Diritto di critica | April 19, 2024

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Caso Fiat, non date la colpa a Marchionne

A proteggere i lavoratori della Fiat adesso ci si è messa anche la Chiesa. Ieri l’arcivescovo di Nola (Napoli), diocesi in cui cade anche lo stabilimento di Pomigliano, ha ammonito Marchionne e le istituzioni a “non giocare con la vita” degli operai. “La logica del liberismo selvaggio” perseguita “a danno dei lavoratori”. “Non devono essere – spiega la nota dell’ufficio per la Pastorale sociale e il lavoro della Diocesi – sempre e solo i lavoratori a pagare scelte che rispondono solo a logiche di un liberismo selvaggio che sacrifica le persone e le loro famiglie all’idolo del denaro e della massimizzazione del profitto”. “Questo tempo di crisi – è l’appello – sia di solidarietà e condivisione da parte di tutti. Anche dell’Azienda Fiat”.

“E’ il mercato, bellezza”. Tutto vero e più che giusto il richiamo della Chiesa che così si dimostra vicina ai lavoratori. Ma quella delle istituzioni italiane e della Curia sembra ormai una disperata rianimazione di un qualcosa che – ogni anno di più – appare come un’azienda destinata a lasciare il nostro Paese. E non perché l’uomo dal pullover sia da considerare il babau dell’imprenditoria italiana, ma perché semplicemente l’auto in Europa non fa più contare i numeri di qualche anno fa. “E’ il mercato, bellezza”. Ed ecco allora che bisogna cercare altri spazi, altre possibilità.

E al di là delle ragioni occupazionali, nel nostro Paese la Fiat è una questione anche e soprattutto politica, legata a un’azienda  avvertita da cittadini e istituzioni come un qualcosa di familiare, anche in ragione delle flebo di finanziamenti pubblici incamerate nei decenni scorsi. Se la Fiat levasse le tende, insomma, per molti sarebbe uno smacco, figlia poco riconoscente verso gli sforzi dall’intera nazione. A molti, però, sfugge che se si vuole smettere di ragionare ciclicamente su come rianimare la Fiat in Italia e su come non far chiudere gli stabilimenti, l’azienda dovrà necessariamente guardare altrove. La regola è sempre quella: il mercato. Ed è di ieri la notizia che la casa di Torino ha intenzione di aprire centri dedicati ai servizi e ai ricambi in Australia, Giappone e Russia, dopo quelli già aperti in Argentina, Brasile, Cina ed Emirati Arabi Uniti. Solo così la Fiat e il modello italiano di un’auto comunque apprezzata più all’estero che non in patria, potrà sopravvivere.

Il caso polacco. Ma la questione è anche e sopratutto di convenienza. Per tacer dei sindacati, infatti, in Polonia un solo stabilimento dove sono impiegati un quarto dei dipendenti produce lo stesso numero di automobili sfornate ogni anno da ben cinque impianti Fiat in Italia. La fabbrica polacca di Tychy, con seimila addetti, produce da sola quasi 468mila vetture mentre i cinque stabilimenti italiani con 25mila dipendenti realizzano 472mila automobili in un anno. Davanti alla contrazione del mercato dell’auto, la scelta di Marchionne sembra più un qualcosa di obbligato che non un vezzo di un amministratore delegato con il pullover. A queste condizioni, si aggiunga la tegola delle benzine, che ormai hanno raggiunto quasi i due euro al litro: acquistare automobili non conviene più. E va peggio se si guardano i dati  dei primi otto mesi dell’anno: Fiat ha venduto circa 600 mila pezzi in Europa (330 mila solo in Italia), circa 600 mila vetture in Sud America e un milione e 300 mila fra Stati Uniti e Canada.

E’ la crisi del sistema-Italia. Il problema, dunque, non è l’ad Fiat quanto il mercato e l’intero sistema Italia che non funziona più (da anni). Imbrigliato tra crisi economica e sindacati e infettato proprio da quegli aiuti di Stato che hanno tenuto in piedi un mastodonte lì dove – negli anni – non avrebbe potuto reggersi viziando di conseguenza anche il mercato. Ma il caso Fiat dovrebbe far scuola per tutto quel sistema dell’impresa che ogni anno di più soffre la crisi di quel sistema-Italia che non agevola l’imprenditoria: pagamenti in ritardo, eccessiva burocrazia, una giustizia lenta e l’inesorabile stretta del credito (nonostante i prestiti agevolatissimi alle banche da parte dell’Europa). E dal momento che si fa un gran parlare di spending review, tutti i tagli dovrebbero essere riconvertiti in un minore carico fiscale sulle imprese. Questi – e non i finanziamenti pubblici – sarebbero provvedimenti ben più duraturi, strutturali e concreti di quanto visto fino ad oggi. Il resto lo fa il mercato.

Comments

  1. A marchionne non si può comandare un’investimento/ politica aziendale, ma da lui si può pretendere che non prenda in giro i suoi dipendenti ed i lavoratori dell’indotto, cosa che consciamente fatto. Perchè nel 2010 la situazione non era rosea e non si prevedeva lo diventasse, sicuramente non in misura da giustificare un raddoppio della produzione nazionale di auto, quindi un raddoppio delle vendite, per un investimento da 20 miliardi di Fiat (scappa da ridere solo a pensarci). Sarebbe bello far confrontare gli operai fiat con quei sindacalisti e politici che promuovevano la firma del nuovo contratto.
    La storia della produttività italiana degli stabilimenti fiat è ormai un alibi. Ricordiamoci che la fiat è privata e se i suoi operai veramente lavorano poco l’azienda avrebbe tutti gli strumenti di reazione a disposizione delle altre società nazionali. Probabilmente non interessa realmente quanto si lavori in quei capannoni, magari è anzi più economico farli lavorare meno (la cassa integrazione la paga lo stato e le auto costruite altrove costano meno), scusa che poi tornerà buona per rivendicare la ragione di chiudere la fabbrica.

  2. non so chi sei ma vedo che non sai che i 20mila lavoratori fiat in ralta la maggior parte non lavora a mirafiori si lavora 2 turni al mese svegliati

  3. un altro pazzo scatenato che scrive tanto x scrivere

  4. antonimo

    Dobbiamo tutti renderci conto del fatto che il “conflitto” in atto in Italia e nel mondo, è tra Economia e Finanza. La Fiat ed il suo indotto, Finmeccanica, Eni, Tod’s e le migliaia di imprese italiane, rappresentano il tessuto economico che tiene impiedi il paese. Se questo tessuto industriale viene distrutto, è la fine. E’ mille volte preferibile dare aiuti alle aziende in difficoltà, aiutando in tal modo anche le famiglie, piuttosto che farle fallire od espatriare, licenziando migliaia di padri di famiglia. Se i soldi vanno dati, è meglio darli alle imprese che la ricchezza la producono, piuttosto che alla banche che tale ricchezza la bruciano. E’ essenziale, ovviamente, che gli aiuti di Stato siano vincolati a precisi impegni sugli investimenti e sul lavoro. Sarebbe questo il compito di un Governo che lavorasse per tutelare gli interessi del paese, al contrario di quanto sta facendo “l’uomo della finanza” Monti, senza che ABC abbiano nulla di sensato da dire ! Monti “gioisce” per il fatto che la Fiat non ha “chiesto soldi”… già Monti, poverino, non può accontentare tutti, i soldi a Monti servono per salvare le banche, vogliamo scherzare?; Salvare le banche … si, ma … in cambio di che ?