Primavere arabe, la rivoluzione “reale” diffusa grazie ai social network - Diritto di critica
La primavera araba è una rivoluzione “non solo virtuale, ma di persone reali, che grazie alla rete hanno riscoperto la loro unità contro la dittatura”. Tunisia, Egitto, Libia: i cosiddetti “social media” si sostituiscono ai media tradizionali, perché solo loro sono in grado di “raccontare le storie di chi, veramente, ha combattuto per i diritti umani”. Così, dal mondo arabo arriva la più grande lezione di democrazia: una partecipazione vera, dal basso, attraverso l’uso di strumenti che rendono i cittadini protagonisti. È uno dei temi affrontati durante il convegno “La speranza scende in piazza” organizzato dal Manifesto.
Nelle ultime rivoluzioni del Nord Africa, la piazza tradizionale non è stata cancellata da quella “virtuale”: i social network sono stati lo strumento per raccontare “lotte che nascevano altrove, nella strada, a partire da rivendicazioni precise”, ha ricordato Amira Al Hussaini, redattrice per il Medio Oriente e Nord Africa di Global Voices on line, in lingua araba. Lei, originaria del Bahrein, è tra le prime donne arabe ad aver lavorato per un quotidiano in lingua inglese, passando dai media tradizionali ai social media, “il solo mezzo per noi e per il mondo arabo per avere un volto e una voce”. Così, il crimine, il massacro vengono raccontati attraverso il telefonino o il pc di quei giovani che scendono in strada, che non sono giornalisti e che spesso finiscono nei tribunali con l’accusa di essere criminali. Immagini, video, testimonianze che vengono poi riversate in rete, consentendo la nascita di un’opinione pubblica non controllata dai regimi e la riscoperta dell’unità di un intero popolo: “Per la prima volta siamo stati in grado di scrivere la nostra storia”, ha sottolineato Al Hussaini. “Dopo che Mohamed Bouazizi si è dato fuoco, i blogger e i social media erano in prima linea, dai primi giorni: eravamo tutti tunisini in quel momento. Per la prima volta, noi arabi sentivamo di essere un popolo unito, contro il dittatore di turno. Passavamo la giornata – continua – a raccontare le storie di chi combatteva per i diritti umani. Libertà, democrazia, cose che voi considerate normali, ma che per noi sono tra i motivi che ci portano in prigione. Non ci interessavano le grandi questioni politiche, ma documentare le atrocità di quelle persone”.
Così, i social network hanno dato voce a rivendicazioni, rimaste per anni silenziose: “La rivoluzione in Egitto va avanti dagli anni ‘90 – ha ricordato la blogger egiziana Nermeen Edrees -: ciò che è accaduto a gennaio è il risultato di una sollevazione che dura da tempo e i social network hanno avuto un ruolo di conoscenza e diffusione”. Ecco perché, per la blogger, quando i regimi, come quello di Mubarak, hanno oscurato la rete, la gente ha continuato a manifestare nelle piazze.
Anche in Libia, la rivoluzione ha trovato voce grazie a Facebook e twitter, come ha spiegato Farid Adly, giornalista libico, direttore di ANBAMED, Notizie dal Mediterraneo e corrispondente in Italia del settimanale panarabo Al Hourriah. “In Libia non c’erano giornali liberi, sindacati, associazioni; i giornali erano di proprietà dello stato, all’interno delle redazioni c’erano i militari che decidevano quali articoli erano pubblicabili. Inoltre intellettuali e scrittori non avevano accesso all’informazione, ma erano costretti a pubblicare all’estero”. E’ in questo contesto che nasce il movimento dei giovani, che si sono riversati nelle piazze, che stanno creando le prime testate, tv e radio locali, come la radio “Misurata libera”, o “Libia libera”, il quotidiano di un gruppo di studenti universitari. “Ci sono diversi esperimenti – sottolinea Adly – guidati da università di comunicazione: gruppi di volontari che stanno cercando di raccogliere esperienze di intellettuali e di chi ha vissuto le angherie della guerra in corso. Spero che proprio queste esperienze siano il futuro della Libia”.
Una rivoluzione che nasce da precise rivendicazioni: il riferimento è al carcere di Abu Salim, dove nel ’96 sono stati massacrati 1271 detenuti, “perché chiedevano condizioni di detenzione migliori. Per anni, le famiglie continuavano a portare vestiti, cibo, ma nessuno diceva loro che i loro cari erano stati uccisi”. Solo nel 2004 il regime ha ammesso il massacro, per bocca del figlio di Gheddafi, che propose di risolvere la questione con degli indennizzi: “Molti – continua Adly – non hanno accettato e hanno organizzato sit-in di protesta. A Bengasi, dal 2008, ogni sabato, a mezzogiorno, le donne (che, per rispetto, non sarebbero mai state manganellate dai poliziotti) hanno rivendicato giustizia e verità: sono queste le parole che hanno scatenato il sistema. Quando le esperienze dell’Egitto e della Tunisia sono risultati vincenti, i manifestanti da 50 sono diventati centinaia, mille”.
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