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Diritto di critica | April 16, 2024

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Non siate «funghi»: a sei anni dalla morte, ritratto di Anna Politkovskaja - Diritto di critica

di Silvia Ilari

Una Makarov IŽ: è questa l’arma che ha ucciso Anna Politkovskaja il 7 ottobre 2006, data che coincide con il compleanno di quello che viene comunemente chiamato il “nuovo Zar”: Vladimir Putin. Una pistola —questa— un tempo in dotazione alle forze armate sovietiche, cosa che ha destato non pochi sospetti, soprattutto tra quelli che le erano vicini. Recentemente si è venuti a conoscenza del fatto che quell’arma farebbe parte di una partita sequestrata nei primi anni ’90, materializzatasi poi in Daghestan, come  ha  spiegato Sergej Sokolov in un articolo apparso ieri sulla “Novaja Gazeta”, testata per la quale scriveva anche Anna. Nel giorno del cinquattaquattresimo compleanno di Putin, la giornalista era uscita per fare la spesa, stava facendo la massaia proprio come “consigliato” dal presidente ceceno Ramzan Kadyrov (lo stesso che ha recentemente ballato con Ornella Muti per intenderci). Questi — dopo aver ricevuto la notizia della sua morte — aveva infatti commentato: «doveva restare a casa a far la massaia». Lei – dal canto suo — non fu mai tenera nel giudicarlo, definendolo privo del «benché minimo barlume di attività celebrale» e come  «lo Stalin dei nostri giorni». Fu con quest’ultimo epiteto che lo apostrofò in un’intervista a Radio Liberty il 5 ottobre 2006, appena due giorni prima della morte. Lo stesso Kadyrov fu tra i primi sospettati tra i mandanti dell’omicidio, così come l’oligarca fuggiasco Berezovskij. L’iter giudiziario del processo Politkovskaja si rivelerà particolarmente tortuoso e burrascoso al punto che la verità non riesce ancora, del tutto, a venire a galla. Probabilmente il prossimo atto della vicenda andrà in scena, in tribunale, tra dicembre e gennaio del prossimo anno. Anna fu freddata con cinque colpi di cui due al cuore, uno al petto e due alla testa: l’ultimo è il colpo di controllo come lo chiamano a Mosca, col quale si ha la certezza che la vittima non racconterà mai ciò che è accaduto.

Eppure, Anna Politkoskaja è tutt’altro che morta, anzi “è viva” come afferma anche il titolo del libro che il giornalista Andrea Riscassi le ha voluto dedicare. In tanti, in Italia, la conoscono e la ricordano. Ogni giorno, associazioni, iniziative (“Annaviva”, “Una videoteca per Beslan” ecc…) e la petizione nata per dedicarle una via nel nostro Paese ne sono una conferma. L’altra certezza emersa durante il Festival di “Internazionale” a Ferrara, è che nessuno vuole dimenticarla: in primis con la consegna dell’omonimo premio giornalistico, quest’anno conferito a Carlos Dada, giornalista salvadoregno, direttore del sito d’informazione “El Faro”, poi,  con una Sala Estense gremita in ogni angolo, per ricordarla. «Non hai mai paura? Le ho chiesto» ha raccontato Galina Ackerman, traduttrice francese dei suoi libri e sua intima amica. «Io non mi posso fermare altrimenti come potrei guardare i miei figli?» le aveva risposto Anna. Solo la gravidanza di sua figlia Vera— nel 2006, poco prima di morire —  l’aveva convinta a fermarsi dopo la nascita del bambino. Con Vera, Anna andata anche a scegliere la carrozzina per il nipote. «Si sentiva sola, diversa. In vita, in Russia non era amata» ha continuato Galina. L’essere considerata una reietta, come lei stessa si definiva, la faceva stare male, così come i giornalisti russi— mattaccini li chiamava Anna— che comunicavano con lei solo al di fuori dei salotti buoni, da cui era tenuta a debita distanza.

Ackerman ha raccontato di come il contatto principale della giornalista in Cecenia fosse Natalia Estemirova, l’attivista della Ong “Memorial” uccisa nel 2009. «Dormiva anche a casa sua, durante i suoi viaggi e le passava informazioni» ha sottolineato. Diversi tra i ricordi di Galina sono presenti, nei «Quaderni russi» reportage disegnato da Igort.  Quest’ultimo ha detto di essere stato spinto «dal voler sapere come Anna viveva tutti i giorni», facendo notare come nell’ex Unione Sovietica ci sia un movimento di opinione sostenuto dalle donne, da Anna Politkovskaja fino alle Femen  georgiane e alle più note  Pussy Riot.

Su Ahmed Zakhaev, indicato tra i mandanti dal tenente colonnello Pavljučenkov come uno dei mandanti dell’omicidio, insieme a Berezovskij, la traduttrice specifica come per anni Anna avesse raccolto, in realtà informazioni e testimonianze per lui sui crimini di guerra in Cecenia, ai fini di istituire un processo per crimini contro l’umanità. Anna aveva rapporti con Zakhaev, in quanto rappresentante di Masxadov all’estero, anche se era rimasta stizzita dal loro atteggiamento durante la crisi del Teatro Dubrovka poiché, a suo parere, non avevano speso una parola per salvare gli ostaggi come scrive lei stessa in “Proibito parlare”. Ackerman ha raccontato di come abbia iniziato a collaborare con Anna nel 2000 e di come quel libro (“Voyage en enfer : Journal de Tchétchénie” n.d.r.)  fu tutt’altro che un successo in Francia, tanto da portare l’editore a non continuare con la pubblicazione. «Politkovskaja non era conosciuta nemmeno in Occidente prima della sua morte. Salvo qualche premio negli Usa, e qualche testimonianza a Strasburgo, era un’emerita sconosciuta i cui libri faticavano a trovare un editore e le cui interviste venivano snobbate dai media occidentali come quelle di un personaggio troppo poco conosciuto. Anche numerosi premi di cui è stata insignita in Europa e in Italia le sono stati conferiti solo dopo la morte. La stessa indifferenza tocca oggi a tanti reporter russi che operano senza alcuna solidarietà da parte dell’opinione pubblica occidentale: resta solo da sperare che non sarà necessaria la loro morte per rendere valido agli occhi degli europei il loro lavoro» ha spiegato a chi scrive Anna Zafesova, giornalista russa de “La Stampa”, diverso tempo fa. Ha parlato inoltre di una triste certezza che tocca, talvolta, il mestiere di chi scrive: «fino a che resteranno battaglie di persone singole, fino a che il giornalista in un regime autoritario viene costretto a sostituirsi alla giustizia di uno Stato e all’impegno di un’opinione pubblica, assisteremo, non solo in Russia, a nuove tragedie».

Ed è vero. Queste tragedie corrispondono, purtroppo, ad una lunga lista di nomi: non solo Politkovskaja ma anche Guillermo Bravo Vega, Marlene Garcia-Esperat, Valery Ivanov, Alexei Sidorov, Khalid W. Hassan. E tanti altri.

«In questo mondo senza etica, dove ognuno è solo, o mio Signore non puoi vedere quanto abbiamo bisogno di dolcezza?» scriveva Ivanov. Una frase, contenuta nei «Quaderni russi» di Igort sembra involontariamente rispondere. «Ecco, Anna era pervasa da quel senso etico che trasuda da una certa letteratura russa dell’Ottocento […] forse quel che Anna ci lascia in eredità è il senso della memoria, quello che ci consente di non chiudere gli occhi, di non voltare la testa dall’altra parte». Per questo, lei direbbe, «se si è nati umani non bisogna comportarsi da funghi». Il fungo mente a sé stesso, vuol cambiare la sua vita ma non lo fa e si nasconde sotto a una foglia ma, scriveva Anna, «lo troveranno comunque, è praticamente certo, lo taglieranno e mangeranno».

Twitter @Silvia_ Ilari