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Diritto di critica | July 27, 2024

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Dalla Libia all'Italia: «costretti a salire sui barconi, non sapevamo dove ci portavano» - Diritto di critica

 Stanley ha lo sguardo triste mentre racconta la sua storia. I suoi occhi corrono lontano, da quella Nigeria dove non c’è più posto per lui alla Libia che ha tradito i suoi sogni. E che quest’estate l’ha portato in Italia, insieme ad altre centinaia di disperati. Stanley ha 31 anni ed è originario della Nigeria, ma a spingerlo in Italia è stata la Libia infiammata dalla guerra, la Libia in rivolta contro Gheddafi. «Vorrei raccontarti la mia vicenda, – spiega – ma forse sarà uguale a quella di tanti altri». Non inizia però subito a parlare: prima prende tempo, si frega le mani. Poi guarda i suoi compagni: i ventidue ragazzi nigeriani che l’1 settembre scorso sono stati trasferiti con lui dal Cpt di Manduria ad una piccola stazione sciistica nella provincia di Bergamo.

Al momento dello scoppio delle rivolte in Libia, Stanley lavorava nel campo dell’edilizia a Tripoli. Se n’era andato dalla Nigeria nel 2004,  a seguito dei disordini di natura religiosa nei quali aveva perso la madre. «Non potevo restare. – racconta – La Libia era il paese più vicino e sembrava il più sicuro». Ma le rivolte contro Gheddafi e il successivo scoppio della guerra hanno minato questa certezza, in particolare per i lavoratori neri residenti nel paese: «i soldati di Gheddafi facevano combattere persone di colore, ma non nigeriani: soprattutto gente dal Chad o dal Niger. Ma noi eravamo neri ed avevamo paura, così io ed alcuni miei connazionali ci siamo nascosti nella campagna fuori da Tripoli. Infine alcunisoldati ci hanno trovati: ci hanno chiesto che stavamo facendo, se combattevamo per i ribelli. Noi abbiamo detto che non stavamo con nessuno e loro ci hanno portato di nuovo a Tripoli, al porto, e ci hanno costretti a salire sulle barche. Era il 2 agosto». Stanley  si interrompe un attimo, poi aggiunge: «non avevamo idea di dove ci stavano mandando». Da quel momento, la sua storia diventa dolosamente simile a quella di tante altre udite in questi ultimi mesi: un barcone stracolmo, il viaggio verso l’ignoto attraverso il Mediterraneo, il salvataggio da parte delle forze italiane. E poi quel primo lembo di terra della speranza: Lampedusa. «Ci hanno salvato la vita – aggiunge – e dato cibo e vestiti». Poi, pochi giorni dopo, viene trasferito a Manduria e da lì in provincia di Bergamo. Adesso è in attesa di poter presentare i documenti per la richiesta di asilo nel nostro paese.

Mentre Stanley racconta la sua vicenda, altri dei suoi compagni si avvicinano: hanno tra i 18 e i 33 anni e fanno parte delle ondate di profughi giunte a Lampedusa agli inizi di agosto. Lucky è uno dei più giovani, ha lo sguardo da ragazzino e talvolta aggiunge qualcosa al racconto di Stanley, ma quando gli chiedo se vuole raccontarmi la sua vicenda sbarra gli occhi arrossati e scuote la testa: «per favore, non adesso. – dice, in inglese – La prossima volta. Sentire la storia degli altri mi fa stare male, non mi va».  E’ invece Joel a prendere la parola: ha 33 anni e faceva il muratore a Bengasi. «Già prima della guerra eravamo discriminati perché neri, – spiega –  ma con lo scoppio degli scontri la situazione è peggiorata. Gli oppositori di Gheddafi pensavano che fossimo mercenari, davano la caccia a tutti gli africani. Così sono scappato a Tripoli». La situazione  non è però delle migliori neanche nella capitale e Joel decide dunque di tentare la fuga dal paese: a differenza di Stanley, non è stato obbligato da nessuno a salire sui barconi. «Mi ci hanno spinto le circostanze, – spiega, alzando le spalle – non potevo fare altro se volevo salvarmi la vita». A Lampedusa ci ha trascorso una sola notte ed è stato invece tre settimane a Manduria: «non era molto bello, sembrava di stare in prigione. E’ meglio qui, anche se fa freddo».

E in montagna, in effetti, di freddo ne fa parecchio, anche se l’estate non è ancora finita. Situato a 1250 metri sul livello del mare, il paese dove sono stati allogiati è frequentato soprattutto nei mesi invernali: per il resto, poche case addossate l’una all’altra e sette chilometri di tornanti che la collegano al paese più vicino, a valle. Tutt’attorno, soltanto boschi e montagne. I ragazzi nigeriani sono ospitati in una dependance di un hotel e non si sa ancora per quanto tempo dovranno fermarsi. «E’ probabile che dovranno restare qui per almeno sei mesi, se non di più – spiega Nicolò Amaglio,  mediatore culturale che li assiste nelle diverse procedure burocratiche –. Lo Stato paga 46 euro al giorno per ciascuno di loro: una cifra irrisoria, se si pensa che deve bastare per garantire loro vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, un corso di italiano, le telefonate nel loro paese e i viaggi per recarsi in questura per i vari documenti ogni volta che ne hanno bisogno». Con gli abitanti del paese, però, non si sono creati attriti: molti hanno anzi già portato giacche e scarpe da fornire ai giovani nigeriani, in vista del rigido clima invernale montano.

«La gente qui è gentile, ci sta aiutando», commenta ancora Stanley, poi mi chiede che cosa pensino gli italiani di loro, dei profughi che arrivano dalla Libia. «Vorrei che gli italiani capissero che molti di noi hanno perso tutto – conclude allora lui– e non hanno un altro posto dove andare. Spero di poter restare qui, di poter avere un’altra possibilità di vita qui in Italia».